Fondazione Ansaldo – fabbrica della memoria – prova a scrutare il futuro dell’Umanesimo Industriale. Lo fa dialogando con il fondatore e presidente onorario di SDSC, Società di Scienze Comportamentali, studioso di problematiche che afferiscono alla organizzazione e gestione delle risorse umane, sul tema dello “smart working”.

La pandemia ha infatti avviato una trasformazione importante del lavoro, dei luoghi di lavoro e della socialità sul lavoro: la cosiddetta fabbrica di una volta ha perso quella centralità nello sviluppo socio-antropologico e relazionale, anche urbanistico, sostituita dalla città che ha invece assunto un ruolo di centro gravitazionale a 360°.

Il “lavoro agile” sta diventando “la nuova normalità”, consuetudine. È un cambiamento di grande rilevanza e, come sempre accade, ogni cambiamento determina impatti. Quanto questi impatti avranno riflesso nel contesto di riscoperta di quell’Umanesimo Industriale che Fondazione Ansaldo intende indagare? Perderemo quei confini e riferimenti che posizionano al centro impresa e lavoratore con le rispettive peculiarità, conoscenze, origini e storie?

Globalizzazione e tecnologie informatico-digitali stanno quindi imprimendo un continuo cambiamento all’interno del quale nascono certamente nuove opportunità, si aprono nuovi orizzonti e prendono forma nuovi modelli di socialità: le cosiddette comunità integrano - se non addirittura sostituiscono - la presenza fisica sempre più con quella in rete, diventando sempre più “liquide”.

Al lettore trarre le riflessioni che riterrà più opportune.

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D. Si parla di educare al lavoro per obiettivi e non per task. Lei non pensa però che l’obiettivo a lungo termine possa essere un’arma a doppio taglio? I task finalizzati all’obiettivo, con date precise e compiti specifici da svolgersi nel breve periodo possono garantire una maggiore efficacia rispetto a una libertà che non sempre garantisce la realizzazione degli obiettivi. Porre un obiettivo a lungo termine, responsabilizzando i dipendenti sui risultati, può rilevarsi paradossalmente una perdita di “produttività” e di efficienza?

R. Le preoccupazioni possono nascere dall’idea di cultura aziendale che è insita dentro di noi. Bisogna effettuare un passaggio culturale e strategico. Educare per obiettivi significa far leva sulla responsabilità individuale, attraverso un modello di leadership che supera gli aspetti desueti del comando e del controllo. Il management di oggi deve basarsi sulla fiducia e sull’empowerment, aprendosi a una nuova modalità di pensiero dove il valore della qualità e la responsabilità degli obiettivi assegnati saranno elementi fondamentali espressi attraverso comportamenti ben identificabili.

D. Smart working e utilizzo degli analytics. Si parla di maggiore attitudine al lavoro da remoto o da ufficio. Ma porre su campi differenti questi due aspetti, con l’utilizzo degli analytics, non comporterebbe anche una disparità nei rapporti con il personale?  Non bisognerebbe tendere sempre e comunque al lavoro d’ufficio, anche in un’ottica di creazione dell’empatia tra dirigente e lavoratore, che il remoto non riesce a stabilire?

R. Non comporterebbe disparità in quanto elemento di valutazione positivo, che non intende pregiudicare i rapporti con il personale, ma rafforzarli a livello empatico. Il manager è capace di adottare iniziative che vengano incontro alle peculiarità del lavoratore, definendo la miglior soluzione tra il lavoro in ufficio o l’home working. Creare un’empatia è generare un ambiente stimolante e comprensivo, dove le aspirazioni aziendali e il benessere del dipendente non sono agli antipodi ma concorrono entrambi per il successo.

D. Creare un network di teams. Fa molto americano, ma all’Italia converrebbe generare un network di teams con la mentalità che possiede? Operare esternamente alla gerarchia e alla struttura burocratica dell’organizzazione dovrebbe garantire libertà individuale e collettiva, ma non potrebbe creare fraintendimenti, dispersione? Bisognerebbe valutare da caso a caso, da azienda ad azienda, ma il rischio non è una frammentazione delle competenze, con un indebolimento del management e delle direttive che può dare, con conseguente mancato raggiungimento degli obiettivi?

R. Un network è pima di tutto luogo di condivisione. Come può esserci fraintendimento o dispersione dove le capacità del singolo vengono messe a disposizione di un bene comune? Bisogna pensare in termini kantiani, la concezione di organismo come “tutto” formato da “parti” che cooperano tra loro in armonia è superiore a una singola parte che opera in autonomia. Può essere una parte perfettamente funzionante, ma se opera senza collegamenti/condivisione è destinata a ottenere minor risultato rispetto a un organismo (team) che concorre a un obiettivo comune. Ecco perché sono importanti le reti, la dispersione avviene se il “genio” delle parti è fine a se stesso ed è compito del management indirizzare quel genio a un fine superiore. 

D. L’azienda deve avere legalmente responsabilità sociale? La povertà della vita di relazione non è un problema individuale che va oltre l’orario lavorativo? L’azienda sicuramente deve anche interrogarsi sulla salute emotiva dei dipendenti ma perché allora vincolarsi a uno smart working che, a seconda dei casi garantisce un maggior-minor incremento della produttività, e dover pure porsi il quesito della responsabilità sociale? Il senso di appartenenza non si crea con il rapporto vis-a-vis, piuttosto che con iniziative social, che rimandano ancora a un utilizzo impersonale delle relazioni?

R. Lo smart working non deve diventare un feticcio che si impone sulla gestione della vita lavorativa. È uno strumento che non si può ignorare, nell’era post-pandemia, ma che può anche aver delle ripercussioni negative proprio per la povertà della vita di relazione. Le aziende devono riuscire a padroneggiare questo strumento, che non è il fine ma il mezzo per rispondere alle esigenze contingenti. Il manager riuscirà, a seconda delle situazioni, interagendo con il lavoratore, senza affidarsi esclusivamente al virtuale, a trovare la soluzione migliore per dipendente e azienda. Ogni sistema è utile per relazionarsi, a partire dai social, senza dimenticare però che il rapporto diretto è preferenziale e non verrebbe comunque ignorato a prescindere dallo smart working. Questo rimane uno strumento, non un luogo di isolamento che aliena il lavoratore.

D. L’home working è un qualcosa che il lavoro di oggi non può trascurare. Immaginiamo quanto potrà aiutare famiglie con figli, persone con problemi di salute, e così via. Tuttavia ripensare l’intera esperienza del lavoratore è corretto? Non si potrebbe semplicemente far correre il lavoro da ufficio e il lavoro da casa su binari paralleli, che però non vengano a sovrapporsi? Bisognerebbe chiedersi quali sono le situazioni contingenti che possono spingere alla scelta dell’home working senza che ciò possa radicalmente ripensare la politica lavorativa attuale, attuando così un percorso graduale, di convenienza da caso a caso.

R. Infatti è necessario ripensare l’esperienza dei dipendenti, nel senso che le nuove forme di attività lavorative non potranno essere accantonate. Non si parla quindi di rivoluzionare le attuali politiche del lavoro ma integrarle, fonderle con i nuovi sistemi e valutare a seconda delle situazioni. Bisogna riconoscere che il COVID-19 ha accelerato l’avvento di nuove forme di lavoro che non potranno più essere ancorate a molti dei comportamenti del passato. Oggi è necessario valutare e innovare l’esperienza dei dipendenti anche alla luce di una società che sta cambiando in fretta e che ha esigenze profondamente diverse rispetto a 30 anni fa.

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