di Alberto Milvio

La storia di mio padre all’Ansaldo, iniziata nel 1977 e terminata nel 1983, si incrocia con uno dei momenti più difficili di questo secondo dopoguerra, con una parte rilevante degli apparati dello Stato e con alcune aziende-simbolo, come appunto Ansaldo, sotto la costante minaccia di attacchi e ritorsioni da parte delle Brigate Rosse. Ed è significativo come in un contesto così difficile, così perturbato, dove poteva essere naturale cedere al pessimismo e al disimpegno, lui aveva avviato un grande programma di rinnovamento sia organizzativo, con la creazione del Raggruppamento Ansaldo, che nei modi di lavorare in azienda, promuovendo una nuova leva di manager, favorendo l’introduzione di nuovi modelli di pianificazione strategica e di organizzazione del lavoro. Il tutto, come era nel suo carattere, facendo leva sulla coerenza nei comportamenti, sul senso di responsabilità, proprio e dei suoi collaboratori, senza cedere a tentazioni auto-celebrative o alla passione, oggi purtroppo diffusa, per gli annunci ad effetto.

Daniela Luigi Milvo 3

La storia di mio padre all’Ansaldo, iniziata nel 1977 e terminata nel 1983, si incrocia con uno dei momenti più difficili di questo secondo dopoguerra, con una parte rilevante degli apparati dello Stato e con alcune aziende-simbolo, come appunto Ansaldo, sotto la costante minaccia di attacchi e ritorsioni da parte delle Brigate Rosse.
Ed è significativo come in un contesto così difficile, così perturbato, dove poteva essere naturale cedere al pessimismo e al disimpegno, lui aveva avviato un grande programma di rinnovamento sia organizzativo, con la creazione del Raggruppamento Ansaldo, che nei modi di lavorare in azienda, promuovendo una nuova leva di manager, favorendo l’introduzione di nuovi modelli di pianificazione strategica e di organizzazione del lavoro. Il tutto, come era nel suo carattere, facendo leva sulla coerenza nei comportamenti, sul senso di responsabilità, proprio e dei suoi collaboratori, senza cedere a tentazioni auto-celebrative o alla passione, oggi purtroppo diffusa, per gli annunci ad effetto.
Un episodio di quegli anni aiuta a comprendere meglio il carattere e la persona di Daniele Luigi Milvio. Molti, durante la giornata che gli era stata dedicata presso la Fondazione Ansaldo nel novembre del 2017, hanno voluto ricordare la decisione di spostare la direzione della società dallo stabilimento di Campi a quello di Sampierdarena, dove più forte e radicata era la presenza delle Brigate Rosse. Questo gesto, fatto quasi in silenzio senza enfasi ma con la consapevolezza di voler dare un segnale importante di presenza e di vicinanza a tutti i lavoratori dell’Ansaldo rappresentò un modo semplice, anti-eroico, ma terribilmente efficace per dire due cose fondamentali in un frangente simile, vale a dire che lui c’era e che non aveva paura.  La decisione, presa in quelle circostanze, credo valga più delle tante parole che spesso ancora oggi si sentono pronunciare sulla inderogabile – e quasi mai realizzata - necessità di “fare squadra”.
Ma quegli anni non furono solo gli anni di piombo, come si usa definirli. Furono anche gli anni dei primi Piani Energetici Nazionali, del programma nucleare, delle partnership e delle collaborazioni internazionali. Impegni e progetti ai quali mio padre si dedicò con passione e con lo spirito del civil servant chiamato a dare, come capo azienda, il proprio contributo allo sviluppo del paese in un’area strategica come quello della politica energetica.  Il tutto, sempre, senza mai perdere il senso della misura, non accontentandosi mai, sperimentando nuove soluzioni e valorizzando la competenza e l’esperienza di quelli che assieme a lui erano coinvolti in queste iniziative.

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Per il ruolo che ricopriva e per l’importanza strategica di Ansaldo, seppe anche mantenere un rapporto con la politica e con le istituzioni aperto, senza compromessi, difendendo quando era necessario le proprie scelte e i collaboratori. Questo aiutò senz’altro l’Ansaldo; meno forse la sua carriera. Ma su questo non ebbe mai rimpianti.
Per lui la religione del lavoro, coltivata con passione lungo tutto l’arco della sua vita professionale, non divenne mai una passione esclusiva, totalizzante. Centrale rimase sempre, il suo legame per la sua terra di origine, la Valtellina, e la passione per la montagna.
La montagna ha avuto senza dubbio un’importanza nella formazione del carattere e del suo “stile manageriale”. Perché chi ama e frequenta la montagna, come ha fatto lui sino alla fine, conosce il valore della prudenza, del silenzio, impara ad ascoltare, a misurare le proprie forze. Mio padre ha affrontato i lunghi e difficili anni in Ansaldo con lo stesso spirito e con la stessa determinazione con i quali per tanti anni ha percorso i sentieri della Valtellina. Dalla sua terra vengono anche il modo semplice, sobrio, privo di qualsiasi retorica, con il quale ha sempre affrontato anche le circostanze più difficili.Infine, se provassimo a rintracciare dopo anni la sua eredità, alcune cose vengono in mente.
La prima, è un’eredità che potremmo definire industriale. Oggi il Raggruppamento Ansaldo non esiste più ma numerose realtà nate da quell’esperimento organizzativo sono ancora vive e continuano a rappresentare delle storie di successo: Ansaldo Energia, Ansaldo STS, Esaote e altre ancora, che hanno contribuito a sostenere il tessuto produttivo dell’area di Genova. Da quell’esperimento, breve ma intenso, è nato anche un tessuto di aziende piccole e medie nel settore dell’elettronica e dell’automazione con una forte vocazione allo sviluppo internazionale e all’innovazione.
Ancora, da quell’esperienza è nata una classe dirigente che a sua volta ha contribuito a formare una nuova generazione di giovani cresciuti sia in azienda sia attraverso lo sviluppo di iniziative imprenditoriali. Generazioni che hanno in questi anni contribuito alla difesa del tessuto industriale della regione.
E infine, un’eredità altrettanto importante, trasmessa alla generazione di manager che hanno avuto la ventura di condividere con lui quegli anni, ma anche ai figli e ai nipoti e a tutti quelli che gli sono stati vicino. È un lascito più difficile da classificare per il carattere intangibile ma non meno significativo. Si tratta di uno stile, di un modo di intendere il lavoro e le responsabilità che ne derivano che aveva in sé qualcosa di molto moderno ma anche di molto antico, radicato.
Parlo di una passione per il lavoro autentica, senza retorica, di un fastidio quasi fisico per i toni alti e declamatori per le affermazioni trionfalistiche. Parlo della convinzione profondamente radicata, che gli atti parlino più delle parole e che il ruolo non giustifichi l’arroganza ma porti solo maggiori responsabilità.
Parlo di un’apertura al nuovo e all’innovazione autentica partendo da una solida e radicata convinzione di quanto sia importante fare bene il proprio mestiere. In fondo, mio padre avrebbe potuto fare proprie le parole del Conte di Kent in risposta a Re Lear che, non riconoscendolo, gli chiedeva chi fosse: “all I am is diligence” gli rispose Kent, vale a dire: “Tutto quello che sono, è fare bene il mio mestiere”. 

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Di Carolina Lussana

Agostino Rocca, amministratore delegato di Ansaldo e Dalmine dal 1933 al 1945 e poi fondatore del Gruppo Techint, può essere definito uno dei grandi protagonisti dell’industria Italiana. Fu artefice dello studio di riforma dell’industria siderurgica nazionale che portò alla realizzazione del Piano Sinigaglia. Negli anni viaggia molto negli Stati Uniti e nell’America del Sud dove entra in contatto con creazioni e concezioni innovative per l’organizzazione e gestione delle industrie che poi applica in Italia attraverso il suo operato. Si impegna principalmente nel risanamento e nella ristrutturazione di numerose aziende di vario genere accumulando così grande esperienza nella gestione di diversi settori industriali. Ciò lo portò, per volere dell’Iri, ad assumere ruoli di governo nella Dalmine e nell’Ansaldo. La vicenda umana e imprenditoriale di Agostino Rocca offre un punto di vista peculiare su una parte importante e forse ancora poco esplorata della storia – non solo industriale – d’Italia e dell’America Latina nel Novecento.

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La vita di Agostino Rocca, fondatore del Gruppo Techint, ha attraversato il ‘900. Sopravvissuto da bambino al disastroso terremoto di Messina del 1908, Rocca vive un percorso di formazione in cui l’esperienza militare – culminata nella Grande Guerra – si fonde con la cultura politecnica e quella finanziaria-gestionale delle grandi banche miste milanesi. Rocca è esponente di una brillante generazione di commis d’etat confluita fin dalla sua costituzione nel 1933, nell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, la holding di Stato chiamata a gestire con criteri di eccellenza manageriale il ricco, ma recentemente dissestato dalla Grande Crisi, patrimonio dell’industria pubblica.

Protagonista dell’industria italiana tra gli anni ‘30 e fino al 1945, Rocca è non solo alla guida di due fra le più importanti aziende del settore siderurgico pubblico (Ansaldo e Dalmine), ma è anche artefice dello studio di riforma organica dell’industria siderurgica nazionale: riforma che, disegnata negli anni del fascismo, trova piena realizzazione solo nel dopoguerra, in un contesto politico completamente cambiato, con il Piano Sinigaglia.

Il nuovo quadro politico seguito alla Liberazione vede Rocca, assolto dal processo di epurazione, intraprendere una nuova avventura professionale oltreoceano, in Argentina, dove in poco tempo, spinto da uno spirito pionieristico ed affiancato da un eccellente gruppo di familiari – il fratello Enrico e l’allora giovane figlio Roberto – fonda un gruppo di imprese multinazionali che si estendono via via dall’America Latina al mondo intero: nell’ingegneria, con Techint; nei tubi in acciaio, con una serie di imprese oggi confluite in Tenaris; nella siderurgia con varie aziende oggi parte di Ternium. La vicenda umana e imprenditoriale di Agostino Rocca offre, in filigrana, un punto di vista peculiare su una parte importante e forse ancora poco esplorata della storia – non solo industriale – d’Italia e dell’America Latina nel Novecento.

Agostino Rocca nasce a Milano, il 25 maggio 1895 da Giuseppe Rocca, ingegnere funzionario delle Ferrovie Alta Italia di origine ligure, ed Enrichetta Sismondo, piemontese, figlia del colonnello ed ex-ministro della guerra Felice Sismondo.

Nel 1908, dopo aver vissuto a Finalmarina, la famiglia Rocca si trasferisce a Reggio Calabria dove, dopo pochi mesi, è decimata dal tragico terremoto che colpisce la città il 28 dicembre: Agostino ed i fratelli minori Enrico ed Elisa perdono i genitori e sono affidati agli zii e nonni materni, vivendo l’infanzia e l’adolescenza a Roma. Ancora giovanissimo, Agostino aspira a non gravare economicamente sulla famiglia e sceglie cosi di entrare – ammesso gratuitamente in quanto orfano di funzionario pubblico – nel Collegio militare di Roma e poi, nel 1913, alla Reale Accademia di Torino, da cui esce diplomato, primo nel suo corso, nel maggio 1915.

Come per molti della sua generazione, la Grande Guerra rappresenta per il giovane Rocca un’occasione per affermare – anche attraverso la scelta di partire volontario – il suo convinto nazionalismo e per sviluppare e mettere alla prova le sue doti di leadership e capacità di comando: doti, che emergeranno successivamente nel corso della sua carriera professionale. Durante la guerra Rocca incontra inoltre alcuni dei suoi futuri amici e soci come ad esempio Dino Grandi. Nominato istruttore degli ufficiali di complemento e poi comandante di batteria, è prima a Valona, in Albania e poi a Susegana, a ridosso del fronte, per addestrarsi nel neonato corpo dei Bombardieri. Nel 1917 il capitano Rocca combatte sul Carso e sulla Bainsizza, a Caporetto, sul monte Grappa, prima di entrare nella prima divisione d'assalto del corpo degli Arditi.

Medaglia d’argento a Vittorio Veneto, alla fine della guerra Rocca lascia la carriera militare e si trasferisce a Milano, dove nel 1921 completa gli studi universitari iniziati al fronte, laureandosi a pieni voti in ingegneria industriale elettrotecnica al Politecnico, culla dell’eccellenza tecnica italiana e vivaio di una generazione di ingeneri destinata a divenire imprenditori, manager, classe dirigente alla guida delle più importanti industrie del paese. Qualche tempo prima, Agostino aveva conosciuto Maria Queirazza, appartenente ad una famiglia attiva nella finanza milanese, che sposa nel 1921: un anno dopo, il 1° febbraio, sempre a Milano, nascono gemelli Anna Maria e Roberto.

Attraverso la famiglia Queirazza, Rocca entra in contatto con la Banca Commerciale Italiana, grande banca mista che detiene pacchetti azionari di importanti aziende industriali italiane tra le quali la Dalmine, azienda produttrice di tubi in acciaio senza saldatura. Nei primissimi anni ‘20 il giovane ingegnere entra in quella azienda come tirocinante d’officina ed è presto promosso direttore dei laminatoi, di cui intraprende una decisa riorganizzazione tecnica. Nel 1926 – e poi ancora nel 1934 – per conto dell’azienda viaggia negli Stati Uniti, dove entra in contatto con innovative concezioni in materia non solo di organizzazione scientifica del lavoro, ma anche di gestione della contabilità industriale come strumento di definizione delle strategie della direzione.

All’interno della Banca Commerciale Italiana, e in particolare della segreteria tecnico-industriale Sofindit, tra il 1923 e il 1933 Rocca interviene nell’analisi tecnico-contabile finalizzata al risanamento o ristrutturazione di numerose aziende manifatturiere, chimiche, elettriche e siderurgiche, accumulando un’esperienza di gestione in diversi settori industriali. La riflessione sui temi della gestione e dell’organizzazione del lavoro e della produzione è parte di una competenza in analisi dei bilanci, valutazione dell’efficienza degli impianti, riduzione delle spese generali, corretta reimpostazione della gestione delle aziende controllate.

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Dopo la crisi del ‘29 le grandi banche trasferiscono le proprie partecipazioni industriali allo Stato che, nel 1933, crea l’Iri – Istituto per la Ricostruzione Industriale, nella cui compagine Rocca confluisce, assumendo ruoli di governo nella Dalmine e nell’Ansaldo, entrambe recentemente passate sotto il controllo pubblico. Oltre che vice presidente ed amministratore delegato Dalmine sino al 1944, Rocca è amministratore delegato e direttore generale dell’Ansaldo dal 1935: alla guida del colosso genovese intraprende un radicale piano di rinnovamento negli impianti, nelle strutture amministrative e commerciali, nell’organizzazione del lavoro, nei criteri di gestione, nella formazione professionale con la nuova scuola apprendisti. Riduzione della diversificazione produttiva, razionalizzazioni impiantistiche, cambi organizzativi che hanno al centro una direzione generale che opera secondo criteri di linea, ma con direzione collegiale, svolgendo funzioni di coordinamento, propulsione e controllo sugli impianti, sulla programmazione della produzione e sulle spese, evitando una eccessiva autonomia dei comparti e coinvolgendo gli alti quadri. Dal 1935 al 1942, l’Ansaldo targata Iri-Rocca passa da ottomila a trentamila operai, e la produzione aumenta da dieci a circa cento milioni di dollari all’anno.

Quando, nel 1937, l’Iri crea la holding siderurgica Finsider, Rocca assume la carica di direttore generale mantenuta fino al 1940, occupandosi anche della gestione di alcuni dei principali complessi siderurgici passati all’amministrazione pubblica come Ilva, Terni e Siac. In questa veste si fa promotore, insieme ad Oscar Sinigaglia, del Piano per la siderurgia italiana, che prevede una radicale riorganizzazione di molte imprese, razionalizzazione dei cicli produttivi verso l’affermazione del ciclo integrale, e la nascita di un nuovo moderno impianto costiero a Cornigliano, adiacente gli impianti dell’Ansaldo. La visione strategica di Rocca e Sinigaglia guarda ad un futuro in cui le materie prime possano giungere dal mare, per alimentare una siderurgia in grado di fornire acciaio a condizioni competitive ad un’industria meccanica – leggera e automobilistica – di cui si intuisce uno sviluppo di massa dopo la guerra. Il piano industriale riceve il totale appoggio di Mussolini, che ne coglie solo le istanze autarchiche e nazionalistiche, ben presto piegate ad una politica industriale di guerra.

Gli anni della guerra vedono Rocca non solo condurre le due aziende di cui è capo, ma anche gestire i complessi rapporti politici in seno ai vertici Iri-Finsider, mantenendo una relazione di appoggio e necessaria consonanza con Mussolini. E se, dal 1939 al 1943, Rocca è consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni, designato da Confindustria come uno dei tre rappresentanti del settore metallurgico, egli rifiuta però di aderire al partito fascista repubblicano, dovendo quindi dimettersi nel 1943 dalla carica di vertice della Dalmine. La complessità si accresce con l’incalzare degli eventi successivi all’8 settembre, quando sempre più essenziale risulta essere la capacità di mediazione fra varie spinte: le direttive di un governo fascista riorganizzatosi nella Repubblica Sociale Italiana e fautore di un presunto nuovo ordine corporativo; un’occupazione tedesca via via sempre più autoritaria e decisa a smantellare se non distruggere gli impianti; le nascenti forme di resistenza e boicottaggio nelle fabbriche e nella società civile. L’esperienza dei mesi tra il ‘44 e l’aprile del ‘45 all’Ansaldo, vedono fra l’altro Rocca impegnato ad evitare con ogni mezzo il trasferimento in massa in Germania di uomini e impianti industriali e la mediazione per salvare il porto di Genova dalla distruzione.

Coinvolto nel processo di epurazione che riguarda la tutta la classe dirigente politica e industriale italiana, Rocca è assolto in quanto la sua partecipazione al fascismo è giudicata come circoscritta all’ambito tecnico e industriale; viene inoltre riconosciuta la sua opera di mediazione che ha condotto al salvataggio di persone, impianti, installazioni, in nome della continuità produttiva.

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Nel dicembre del 1945, in un contesto sociale e politico ancora incerto, Rocca fonda, a Milano, la Compagnia Tecnica Internazionale – dal cui acronimo telegrafico sarebbe stato ricavato di lì a poco il nome definitivo Techint – specializzata nella progettazione, costruzione e avvio di impianti industriali. Al suo fianco nell’impresa: il figlio Roberto, specializzatosi al Massachusetts Institute of Technology dopo la laurea in ingegneria conseguita presso il Politecnico di Milano; il fratello Enrico, che già alla Dalmine era stato direttore commerciale; i cognati Rodolfo ed Edoardo Queirazza; un piccolo gruppo di fidatissimi amici e collaboratori, alcuni dei quali provenienti da Dalmine – come Roberto Einaudi, Italo Camera, Ilario Testa – o dall’Ansaldo, come Stamaty Rodo­canachi.

Solidi vincoli familiari e amicali, competenza industriale ed ingegneristica, autorevolezza e credibilità derivante da un’esperienza ai vertici di una holding, oltre che di singole imprese siderurgiche, ottime entrature e reputazione nell’ambiente dell’industria e delle istituzioni economico-industriali in Italia e all’estero: questi sono gli elementi su cui Rocca costruisce un’impresa che nasce come affiatato team di manager ed ingegneri in grado di progettare e realizzare opere di ingegneria e ed impianti industriali e di offrire questa esperienza a livello piano internazionale.

Il 15 febbraio 1946, giorno di San Faustino, Agostino Rocca lascia l’Italia alla volta dell’America Latina insediandosi, dopo alcuni contatti stabiliti in Brasile, a Buenos Aires, dove inizia la costruzione di una sempre più fitta relazioni con l’industria e le istituzioni di paesi latinoamericani alla ricerca di opportunità di sviluppo per le attività di progettazione di impianti industriali e di grandi opere infrastrutturali.

Sempre nel 1946, in Messico, Rocca incontra l’imprenditore di origine italiana Bruno Pagliai e, attraverso lui, il presidente Aleman e l’impresa petrolifera nazionale Pemex, interessati alla realizzazione, nel golfo di Veracruz, di una fabbrica di tubi in acciaio. Da questo contatto, e solo nel 1954, prende avvio la produzione di tubi di Tamsa, di cui Techint – inizialmente piccolo azionista ma progettista degli impianti e fornitore delle macchine – assumerà il controllo negli anni ’90, incorporando l’azienda messicana nell’attuale gruppo Tenaris.

Nel 1947 Techint ottiene una prima importante commessa per la realizzazione del gasdotto Comodoro Rivadavia-Bahia Blanca-Buenos Aires, destinato a sfruttare i ricchissimi giacimenti di gas della Patagonia: quasi duemila chilometri di linea e ottantamila tonnellate di tubi, che l’Argentina non produce autonomamente. La consistente fornitura viene garantita dall’italiana Dalmine, che qualche anno più tardi partecipa con la Techint nella costituzione di Dalmine Safta, con la sua fabbrica di produzione di tubi in acciaio senza saldatura che Rocca fonda nella città di Campana, a 80 km a nord di Buenos Aires, portandovi l’esperienza accumulata negli anni dalminesi. La fabbrica – oggi parte di Tenaris – è inaugurata nel 1954, insieme ad un complesso di abitazioni, centro civico, foresteria, servizi per i dipendenti, installazioni sportive che ricalcano quelli della company town sorta attorno allo stabilimento di Dalmine negli anni ‘30 e ‘40 negli anni in cui Rocca era al vertice dell’azienda.

Nei suoi primi anni di attività in Argentina, Agostino Rocca dà impulso ad altre iniziative industriali: Cometarsa, specializzata nella produzione di carpenteria metallica, pali e strutture per l’elettrificazione; Elina, che svolge attività nel campo del montaggio di linee elettriche; Losa, un’azienda di ceramiche e materiali per la costruzione.

Parallelamente, si accresce anche la rete di attività di ingegneria in altri paesi della regione: in Venezuela con la costruzione di strade, in Uruguay con opere di estensione della rete elettrica ad alta tensione, e con l’insediamento, nel 1957, di una sede. E anche in Brasile, dove Techint inizia ad operare con l’installazione di una centrale termoelettrica per conto della Companhia Siderurgica Paulista, negli oleodotti, e in Cile, Bolivia e Perù dove acquisisce numerosi ordini nei settori idroelettrico e dei gasdotti. Le attività di ingegneria si diffondono poi anche in Messico, in Asia, in Europa. Nel 1961, in seguito al piano siderurgico promosso dalle autorità argentine che apre alle imprese private la possibilità di concorrere alla costruzione di un impianto a ciclo integrato, Rocca fonda ad Ensenada (nella provincia di Buenos Aires) Propulsora Siderurgica – oggi Ternium – che entra in funzione solo nel 1969 dopo una estenuante vicenda di avanzamenti e stalli determinati dalle instabili condizioni politiche argentine.

Nel 1968, a 73 anni, Agostino Rocca passa al figlio Roberto il testimone della presidenza effettiva di un gruppo multinazionale di aziende che, solo in Argentina, occupa in quel momento oltre 15 mila persone e le cui attività vanno dal settore metallurgico e siderurgico all’installazione di centrali chimiche, petrolchimiche ed elettriche, alla costruzione di gasdotti e oleodotti e ad altre grandi opere infrastrutturali. Qualche anno dopo, come presidente onorario, lascia al Gruppo il suo “testamento”, un opuscolo indirizzato ai dirigenti, dove ribadisce l’assoluta importanza di uno stile aziendale fatto di serietà, correttezza, centralità delle relazioni interpersonali, rigorosi criteri di amministrazione e gestione, decentramento operativo unito ad un controllo centrale.

Agostino Rocca si spegne il 17 febbraio 1978, all’età di 83 anni. Per sua volontà testamentaria viene sepolto nella città di Campana, in Argentina, vicino al centro industriale da lui creato trent’anni prima. Sotto la guida del figlio Roberto, fino alla sua scomparsa nel 2003, e dei nipoti Agostino – mancato nel 2000 – Gianfelice e Paolo, il gruppo Techint cresce giungendo ad occupare oltre 50 mila persone distribuite nelle principali aziende globali: Techint Engineering & Construction, Tenaris, Ternium, Tenova e Humanitas.

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Fotografie provenienti da Fondazione Dalmine e Techint Group Archive Center

Di Marco Frasca & Alfonso Farina

Nell’articolo di Lorenzo Fiori in Civiltà delle Macchine n.3/2020 pag.34, è riportata una descrizione biografica di Giovanni Ansaldo. Nella prima pagina è inserita un’immagine di un foglio di calcoli di Giovanni Ansaldo risalente a circa il 1840. In quegli anni G. Ansaldo era impegnato dalla sua carriere accademica, in quel periodo infatti le sue condizione economiche gli permisero di abbandonare l’attività di architetto per dedicarsi all’insegnamento universitario dove eccellerà ottenendo una cattedra di analisi infinitesimale presso l’Università di Genova nel 1850.

Alla luce di questo aspetto biografico di Giovanni Ansaldo, è interessante allora farsi un’idea dei contenuti del foglio di calcoli che riportiamo in Figura 1. Il contenuto del foglio, a parte il magnifico schizzo a matita di un angelo (ricordiamo che G. Ansaldo era un abile disegnatore a cui piaceva ricopiare antichi incunaboli con le relative miniature), è una trattazione matematica del ben noto folium di Cartesio rappresentato in Figura 2 e avente per equazione:

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dove a è un parametro reale, che è proprio quella riportata in alto a sinistra nel foglio di calcoli in Figura 1. Questa curva fu proposta per la prima volta da Cartesio nel 1638 in una lettera a Mersenne. Il motivo per introdurre tale funzione era legato ad una diatriba con Fermat relativa al suo metodo per trovare i minimi ed i massimi che Cartesio riteneva non all’altezza del suo. Fermat rispose prontamente risolvendo il problema con il suo metodo e dimostrando quindi a Cartesio, che lo considerava un dilettante, come in realtà fosse un matematico di livello. Il nome “folium” (foglia) alla curva fu proprio attribuito da Fermat ma si affermò solo successivamente grazie a d’Alembert e De Moivre.

Questa digressione storica è interessante perché inquadra il tutto in un preciso contesto storico chiarendo che il foglio di calcoli di Giovanni Ansaldo è probabilmente di valore didattico rappresentando possibilmente una preparazione a qualche lezione per i suoi studenti. In quegli anni infatti, il folium di Cartesio era ben noto e l’analisi matematica molto avanzate per non costituire niente di più che uno strumento valido solo dal punto di vista didattico.

Nel foglio di calcoli possiamo apprezzare in alto a sinistra il calcolo della derivata prima di una funzione implicita e relativa derivazione degli estremi. In alto a destra invece l’Ansaldo deriva la formula di Cardano per la soluzione delle equazioni cubiche che applica poi al folium di Cartesio. Il foglio di calcoli nel suo insieme rappresenta perciò il ragionamento per la derivazione degli estremi della data curva implicita per un caso molto ben noto storicamente anche per G. Ansaldo.

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Figura 1- - Foglio di calcoli risalente agli anni '40 del1800, di G Ansaldo. (Fondazione Ansaldo)

 

folium

Figura 2 - Folium di Cartesio e relativo asintoto per a=2.

Di Claudia Cerioli

Ferdinando Maria Perrone è un personaggio singolare, a partire dalle voci sulla sua nascita: si vociferava che fosse il figlio naturale di Ferdinando Maria Alberto di Savoia Carignano, duca di Genova, nonché secondogenito di re Carlo Alberto.  Si sa poco dei primi vent’anni della sua vita, nel 1866 si arruola volontario come Garibaldino e nel 1869 venne condannato a 6 mesi di carcere per truffa. Un inizio molto movimentato che lascia trasparire la spiccata capacità trasformistica di Ferdinando e una disponibilità a rischiare senza esitazioni e remore morali pur di conseguire i propri obbiettivi. L’episodio più decisivo per la carriera di Perrone fu la vendita al Governo argentino, concordata in autonomia, dell’incrociatore corazzato Garibaldi prodotto dall’Ansaldo. Tale successo gli procurò l’incarico di rappresentante dell’Ansaldo per l’America del Sud e il Messico. Le sue ambizioni, infine, lo portarono a diventare nel 1902 socio capitalista dell’Ansaldo dando il via all’era Perrone.

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Il nome di Ferdinando Maria Perrone è diventato ben noto a tutti i genovesi se non altro negli ultimi due anni, attraverso i nuovi servizi di messaggistica istantanea come Telegram, legato com’è alla strada che ne porta il nome, arteria fondamentale della Val Polcevera e oggetto di una lunga serie di chiusure e di riaperture legate al crollo del Ponte Morandi e ai lavori di costruzione del nuovo viadotto. Prima di quel tragico agosto 2018, Corso Ferdinando Maria Perrone era conosciuto essenzialmente dai lavoratori delle industrie della zona, prima tra tutte l’Ansaldo, e dagli abitanti dei quartieri periferici che si trovano lungo il corso del Polcevera per raggiungere la zona della Fiumara, e da lì il centro città, e il Ponente di Genova. La strada venne aperta all'inizio del Novecento, con lo sviluppo industriale dell'area, voluta da F.M. Perrone che, oltre a darle il nome, fu il principale artefice dello sviluppo degli stabilimenti Ansaldo.

Ferdinando Maria nasce a Torino, il 10 gennaio 1847. Il padre Luigi è “addetto al regio servizio” dal 1835, in qualità di garzone di camera di Ferdinando Maria Alberto di Savoia Carignano, duca di Genova. Una voce in seguito diffusa vorrà il Perrone figlio naturale del Savoia, secondogenito di re Carlo Alberto e fratello di Vittorio Emanuele, di lì a due anni re di Sardegna. Quello che è certo è che il duca Ferdinando fa da padrino al battesimo del bimbo al quale vengono imposti, non a caso, i nomi di Ferdinando Maria Giuseppe Giuliano.

Non ci sono informazioni sui primi vent’anni di vita di Ferdinando; la prima notizia certa è che nel maggio del 1866 il giovane si arruola volontario come Garibaldino, nel VI reggimento del Corpo volontari italiani, distinguendosi nella battaglia di Condino contro i nemici austriaci. L’anno seguente, il 30 maggio 1867, Perrone, che nel certificato di matrimonio risulta di professione “tappezziere”, sposa Maria Angela Albano, una sartina analfabeta di Torino. 

Solo due anni dopo Perrone diventa suo malgrado protagonista della cronaca dell’epoca: il 23 aprile 1869, Ferdinando Maria, poco più che ventenne “scrittore pubblicista”, come si dichiara ai magistrati, viene condannato dal tribunale correzionale di Torino a 6 mesi di carcere e a una sostanziosa multa per truffa ai danni di Marietta Cerutti e per “percosse con premeditazione” all’avv. Luigi Onetti, direttore del giornale “Il Ficcanaso”. Stando alle carte, nel dicembre 1868, Ferdinando Maria Perrone si sarebbe presentato in casa della Cerutti qualificandosi come “agente segreto della lista Civile, incaricato dal Marchese Gualterio di arrestarla”, incarico che avrebbe potuto sospendere in cambio di qualche oggetto prezioso. La donna, spaventata, gli affida un braccialetto d’oro, subito impegnato da Perrone al Monte di Pietà. Prima che in tribunale, il caso arriva però sulle pagine del “Ficcanaso”, un giornale repubblicano, diretto da Luigi Onetti, che pubblica una serie di articoli gravemente lesivi sul Perrone. Nel febbraio 1868 i due arrivano alle mani nel centralissimo “Viale del Re”, Corso Vittorio Emanuele a Torino.  Questo discusso episodio giovanile serve più che altro a far luce su alcuni aspetti della personalità di Perrone che, oltre ad una iniziale condizione economica precaria, mostra una spiccata capacità trasformistica, una disponibilità a rischiare senza esitazioni e remore morali pur di conseguire i suoi obbiettivi.

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Pochi anni dopo, nel 1872, il venticinquenne Perrone incontra un uomo che per particolari e contrastanti motivi segna una prima svolta nella sua vita, il marchese Alessandro Paulucci, di antiche e solide tradizioni aristocratiche e all’epoca sulla cinquantina. In breve tempo tra i due, così diversi per età ed estrazione sociale, si instaura un legame intimo affettivo tanto da spingere Perrone a trasferirsi, con la moglie, nella villa del marchese presso la tenuta di Mamiano nel Parmense. Di fatto Alessandro adotta Ferdinando per il quale nutre un amore paterno, estremizzato però nelle sue manifestazioni da un fragile stato emotivo di partenza: vive nel terrore di un distacco da parte del “figlio” e lascia trasparire nelle sue lettere una forte gelosia nei confronti di Angela, la moglie di Perrone, a tal punto da chiedere a Ferdinando di tenerla lontana dalla loro frequentazione quotidiana.

Perrone interromperà bruscamente il rapporto con il marchese nel 1875, non prima però di aver ottenuto dal marchese la gestione della grande tenuta di San Leonardo, dietro il pagamento di un affitto simbolico che nascondeva una donazione di fatto.

Per l’ex pubblicista - tappezziere dall’anonimo passato, la gestione della tenuta agricola non comporta soltanto un deciso incremento di reddito, ma anche la possibilità di accedere ad uno status sociale alto borghese, tale da consentirgli di stabilire rapporti paritari con l’élite dominante.

Sfruttando le relazioni sociali del marchese Paulucci, Ferdinando Maria Perrone riesce ad introdursi nell’ambiente politico ed economico locale dove ha la possibilità di entrare in contatto con alcune personalità di rilievo quali l’economista Fedele Lampertico, e attraverso questi, il deputato Luigi Luzzatti.

Nel 1875 muore Mariangela Albano, contagiata dal tifo che imperversa nella zona. In seguito alla rottura dei rapporti con Paulucci, Ferdinando Maria Perrone utilizza a pieno le sue capacità dialettiche ed il suo carisma conquistando la fiducia dell’on. Luigi Luzzatti, tanto da farsi scegliere quale segretario personale. Grazie all’incarico ottenuto può tornare a Torino ed entrare in contatto con esponenti dell’amministrazione dello Stato come Vincenzo Bignami ed il conte Vittorio Zoppi, rispettivamente Questore e Prefetto della città, e con il funzionario di pubblica sicurezza Giuseppe Omati, del quale sposa in seconde nozze la figlia Cleonice nel 1876. Dal matrimonio nascono i figli Pio, nell’ottobre 1876, e Mario, nel gennaio 1878.

32972 Ritratto Famiglia Perrone Pio Cleonice Mario Ferdinando Fot. Rossi Genova s.d

Nel frattempo la famiglia, a causa di un rovescio finanziario, è costretta a lasciare la tenuta di San Leonardo di Mamiano e a trasferirsi ad Alessandria, dove però rimane per un breve lasso di tempo.

Nel 1879, infatti, Ferdinando Maria Perrone risulta affittuario di una tenuta sita nel comune di Leno, in provincia di Brescia. Qui, dopo una breve esperienza maturata ad Alessandria, riprende con fervore l’attività di pubblicista, scrivendo regolarmente per il giornale locale «La Sentinella Bresciana».

Durante la sua permanenza a Leno non avvengono episodi di rilievo, fino a che, nel 1884, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Torino, Perrone conosce Basilio Cittadini, noto giornalista di origini bresciane, incontro dal quale ha inizio un’amicizia controversa destinata ad avere grande parte nelle vicende future di entrambi.

Cittadini, giornalista di grande esperienza sia in Italia sia in Argentina, dirige a Buenos Aires il giornale «La Patria degli Italiani», da lui stesso fondato nel 1876 con il nome «La Patria», uno dei quotidiani maggiormente diffusi tra gli italiani emigrati in Argentina, il che lo rende di fatto il portavoce della più importante e numerosa comunità di emigranti presente a Buenos Aires in quegli anni. L’amicizia con Cittadini non tarda a dare i suoi primi frutti, e dopo qualche sporadica collaborazione in qualità di corrispondente dall’Italia con «La Patria degli Italiani», Ferdinando maturò l’idea di partire alla volta di Buenos Aires insieme a Cittadini, dove arrivò nel gennaio 1885.

I primi anni argentini sono per Ferdinando Maria Perrone caratterizzati da grande serenità, ricchi di esperienze professionali in diversi settori, dalla pubblicistica, campo a lui estremamente congeniale, agli incarichi ricoperti nell’amministrazione pubblica, agli investimenti immobiliari e speculativi, che lo portano nell’arco di un decennio a consolidare la sua situazione finanziaria e sociale, e a crearsi una solida rete di conoscenze nell’élite politica argentina.

La svolta decisiva giunge nel 1894, anno dell’arrivo a Buenos Aires di Ferdinando Marengo, partito dall’Italia per incontrare Perrone e accompagnato da una lettera di Antonio Omati, cognato di Ferdinando e direttore dal 1883 dello stabilimento Ansaldo di Sampierdarena. In questa lettera Omati raccomanda Marengo al cognato, chiedendogli inoltre aiuto e consigli su come avviare possibili affari con il Governo argentino per conto dell’Ansaldo, allora gestita dai Bombrini.

Sebbene i Bombrini non fossero interessati ad avere un proprio rappresentante in Argentina, mercato dalle potenzialità per loro del tutto sconosciute, Perrone inizia da subito a muoversi come se lo fosse, grazie soprattutto all’aiuto del cognato Antonio Omati che gli invia periodicamente il materiale informativo necessario. Contando sulle proprie amicizie altolocate, di cui sicuramente la più influente è quella con Julio A. Roca, presidente della Repubblica Argentina, Perrone nel giro di pochi mesi riesce a compiere quello che agli occhi dei Bombrini appare come un miracolo, ovvero far acquistare nel 1895 dal Governo argentino l’incrociatore corazzato Garibaldi di 7.400 tonnellate di dislocamento, costruito nei Cantieri navali Ansaldo di Sestri Ponente. Già nell’agosto 1895 Ferdinando Maria Perrone è nominato rappresentante con pieni poteri dell’Ansaldo per l’America del Sud e il Messico.

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Agli inizi del dicembre 1895 Ferdinando decide di tornare in patria per quello che nei suoi progetti doveva essere solo un soggiorno di breve durata in concomitanza con la chiusura delle Camere parlamentari a Buenos Aires, e che invece si protrae per circa due anni.

La posizione raggiunta, l’uso talvolta spregiudicato delle proprie capacità affaristiche e i rapporti con personaggi influenti non tardano però a causargli notevoli problemi che si concretizzano nel suo coinvolgimento nel noto processo di Bologna, terminato alla fine del 1898 e dal quale Perrone esce senza alcun danno. Comunque amareggiato per la vicenda e per l’inevitabile strascico di polemiche giornalistiche, dopo due anni di residenza in Italia, in uno stato di salute precario, Perrone e la sua famiglia fanno ritorno in Argentina.

Tornato a Buenos Aires, Ferdinando riesce a sfruttare con grande tempestività la rielezione dell’amico Roca a Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1898, chiudendo in tempi rapidissimi la vendita al Governo argentino di un altro incrociatore corazzato classe Garibaldi, il Pueyrredon. Dopo questo ulteriore successo Perrone sceglie però di allentare i suoi contatti con la Gio. Ansaldo & C., e per almeno tre anni i suoi rapporti con i Bombrini si riducono allo stretto necessario. Questo improvviso raffreddamento nelle relazioni, giunto per altro in un momento a lui professionalmente così favorevole, trova spiegazione nella profonda insoddisfazione di Perrone per le condizioni contrattuali considerate penalizzanti. Nella primavera del 1899 Ferdinando Maria Perrone lascia quindi nuovamente l’Argentina per l’Europa, senza però fare ritorno in Italia e, già a partire dal novembre dello stesso anno, hanno inizio le trattative per il rinnovo del contratto di rappresentanza.

I Bombrini, infatti, non sembrano interessati a concedere una partecipazione di Perrone al capitale dell’azienda, e nel trasformare il suo incarico di rappresentanza per il Sud America a rappresentanza generale per l’estero. Almeno su quest’ultimo punto Perrone ha la meglio venendo nominato nel luglio 1901 rappresentante generale per l’estero con facoltà di firmare a nome dell’Ansaldo e, ad ulteriore conferma della fondatezza delle sue pretese, tornato in Argentina nello stesso anno, il 23 dicembre 1901 firma con il Governo argentino il contratto di vendita di due incrociatori corazzati classe Garibaldi da 8.000 tonnellate. Le navi, costruite e varate a Sestri Ponente nell’ottobre 1902 e nel febbraio 1903, con i nomi Rivadavia e Moreno, a seguito dell’accordo di pace stipulato tra il Cile e l’Argentina, furono quindi cedute da quest’ultima alla Marina giapponese, e ribattezzate Kasuga e Nisshin.

Con cinque incrociatori venduti al suo attivo, Perrone a questo punto può imporsi sui Bombrini, costretti a cedere di fronte alle sue ferme pretese di diventare socio della Gio. Ansaldo & C.

Il 25 settembre 1902 Ferdinando Maria Perrone acquista la quota azionaria detenuta da Raffaele Bombrini, fratello di Giovanni e Carlo Marcello, diventando di fatto socio capitalista, e contestualmente gli viene anche confermato l’incarico di direttore rappresentante generale per l’estero. Inizia così l’era Perrone dell’Ansaldo destinata a durare anche dopo la morte di Ferdinando, nel 1908, con il passaggio della società direttamente ai figli Mario e Pio che la gestiscono fino al 1921, anno in cui vengono allontanati dall’azienda in seguito al crollo della Banca italiana di Sconto di cui erano i maggiori azionisti.

Marchio Società Ansaldo Armstrong

Immagini provenienti dal Fondo Perrone (Fondazione Ansaldo)

Di Lorenzo Fiori      

Giovanni Ansaldo, fondatore a soli 33 anni della Gio. Ansaldo & C., è una figura storica che ancora oggi è di grande ispirazione. Uomo dai molteplici interessi e passioni, che spaziano dall’arte all’ingegneria, è caratterizzato principalmente da una visione strategica e coraggiosa che lo ha portato a diventare un pioniere dell’innovazione industriale di prodotto e di processo. È Cavour a vedere in Giovanni Ansaldo l’imprenditore ideale per le sue capacità e la sua energia, rendendolo il braccio operativo del suo disegno strategico-industriale volto a gettare le basi per uno sviluppo economico di stampo moderno per l’Italia unificata, trasformandola da società agricola a società industriale. Giovanni venne nominato, poco prima della sua precoce scomparsa, “alto commissario tecnico” nelle terre lombarde conquistate dai franco-piemontesi.
Guardando al suo operato possiamo trarne ancora oggi ispirazione, capitalizzandone insegnamenti e esperienze per costruire un futuro altrettanto produttivo e innovativo.

Giovanni Ansaldo imprenditore del futuro

Quest’anno Fondazione Ansaldo celebra un doppio anniversario: quello dalla prima apertura al pubblico quarant’anni fa e quello dalla costituzione della Fondazione vent’anni fa: 20 più 20, nel 2020, un gioco di numeri del quale sarebbe stato sicuramente contento Giovanni Ansaldo, fondatore della Gio. Ansaldo & C. e appassionato matematico. Una storia, quella di Giovanni, che descrive la poliedricità, l’intraprendenza, la determinazione, la tenacia di un uomo, trascinatore, capace di visioni ancora oggi attuali. Pertanto è doveroso ripercorrere la sua storia in quest’anno così significativo. Grazie al suo operato è iniziato quel lungo percorso che ha portato negli anni '80 del Novecento alla creazione dell’Archivio Storico Ansaldo e nel 2000 alla nascita della nostra Fondazione.  

Giovanni Ansaldo nasce nel 1819 da famiglia modesta e operosa. Studia l’arte del disegno, ma l’abbandona per la matematica. Si laurea a soli 21 anni in ingegneria civile e l’anno dopo in quella idraulica. Comincia presto a lavorare. In un primo tempo si dedica alla libera professione: è architetto, progetta e costruisce ville e chiese nella riviera, coadiuva gli architetti Resasco e Grillo nel progetto del cimitero monumentale di Staglieno. Un mix di attività che integrano arte, umanesimo e bellezza con l’ingegneria.

Giovanni Ansaldo imprenditore del futuro2

Dopo il 1840 compie viaggi per l'Europa, specie in Inghilterra, per approfondire i temi della produzione meccanica e della costruzione di locomotive. Nel 1847 viene chiamato alla cattedra di geometria descrittiva nella facoltà di filosofia ed arti dell'Università di Genova. Per il prestigio e la fiducia che si era conquistato presso i nuovi gruppi politico-liberali e negli ambienti accademici, gli affidano la cattedra di meccanica applicata alle arti nella scuola tecnica serale da lui stesso istituita, inaugurata con una prolusione che fece scalpore per la novità delle idee prospettate.

È con l'ala avanzata di quella borghesia liberale mercantile che, nel periodo carloalbertino, ma ancor più nel decennio cavouriano, sviluppa una notevole capacità di iniziativa economica e politica. Nell’estate del 1851 guida una delegazione di operai e di tecnici a Londra per l'esposizione internazionale. Fonda l’Istituto Tecnico Navale, diviene un profondo conoscitore dei problemi dell'industrializzazione nonché attivo fautore dell'incremento infrastrutturale ferroviario.

Nel 1852 riceve l’incarico da Cavour di rilevare lo stabilimento italiano di Taylor & Prandi che nel frattempo era stato messo in liquidazione. Su questo “mattone” viene costruita quella che diverrà l’Ansaldo. Artefici, con Giovanni Ansaldo, sono anche Carlo Bombrini (direttore della banca nazionale del regno sardo, la banca subalpina), Raffaele Rubattino (armatore), Giacomo Filippo Penco (finanziere). A soli 33 anni, Giovanni Ansaldo riceve quindi l’incarico di prendere la direzione di questa nuova impresa sotto il nome sociale di “Gio. Ansaldo & C.”, con capitale iniziale di 800.000 franchi, in gran parte anticipati dalla banca subalpina di cui Bombrini era il direttore.

Lo stabilimento ricomincia subito a lavorare, iniziando la costruzione di calderini, di locomotive e gru. Nel 1856, Giovanni Ansaldo – in incognito - collauda personalmente le prime due locomotive sulla ferrovia Torino - Rivoli.  Sotto la sua direzione, lo stabilimento cresce in capacità produttive, maestranze e competenze.  Vengono acquistati nuovi macchinari e realizzati nuovi impianti. I capi officina stranieri – eredità della Taylor & Brandi – vengono via via rimpiazzati da tecnici italiani che, nel frattempo, hanno acquisito know-how di prodotto e processo. Cavour vede in Giovanni Ansaldo l’imprenditore ideale alla realizzazione dei suoi piani e lo spinge ancora più in là, a crescere industrialmente. E Giovanni risponde con nuove idee e progetti, acquistando la spiaggia di Sampiedarena per farci un grande cantiere navale che, mediante un ponte gettato sulla valle del Polcevera, doveva estendersi lungo tutta la riva di Cornigliano.

Giovanni Ansaldo imprenditore del futuro3

Come in tutte le storie, anche Giovanni Ansaldo deve fare i conti con le invidie della sua stessa comunità di appartenenza, quella genovese, indotte dalle criticità causate dalla resistenza della banca subalpina a supportare lo sforzo finanziario. Queste alimentano una sorta di guerra contro il suo spirito imprenditoriale giudicato troppo intraprendente. Giovanni viene accusato di essere troppo ingegnere, di occuparsi di troppe iniziative e di far poco attenzione ai conti ma soprattutto di essere troppo ligio al governo piemontese. Si deve quindi inventare un po’ guerriero e comunicatore per controbattere le resistenze e le accuse. Lo fa con lealtà: abbandona gli incarichi collaterali e si concentra sulla Gio. Ansaldo & C., riconquistando fiducia e stima fino ad essere nominato “alto commissario tecnico” nelle terre lombarde conquistate dai franco-piemontesi. Questa nomina lo coglie all’apice della carriera ma cade purtroppo malato e dopo pochi giorni muore. Il funerale – solenne – rende onore alla sua figura di imprenditore: il feretro fu portato in spalla dagli operai fino a Staglieno. Sulla base di appunti di famiglia il nipote scriverà di lui “…. una bella vita, uomo bello, alto, biondo, di apparenza robusta, correttissimo nei modi e di carattere gioviale, idolatrato in famiglia e sul lavoro ...”. Va rammentato che Giovanni Ansaldo era uomo di energie infinite al punto che, nella sua intensa vita, trovava il tempo per ricopiare fedelmente a mano incunaboli e manoscritti medioevali, non soltanto nella grafia ma nelle stesse miniature.

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Giovanni Ansaldo è stato il braccio operativo del disegno strategico-industriale di Cavour volto a gettare le basi per uno sviluppo economico di stampo moderno per l’Italia unificata, trasformandola da società agricola a società industriale. Nei suoi 100 e passa anni di attività l’Ansaldo ha poi contribuito a far diventare la nazione una delle principali potenze manifatturiere a livello mondiale. In Ansaldo si costruivano aerei, navi, locomotive, automobili, macchine per la generazione del vapore, cannoni. Inizialmente vi si produceva anche l’acciaio, così importante per una economia di trasformazione quale quella che nasceva e che poi si svilupperà e che, ancora oggi, è l’asse portante produttivo nazionale. Molte di queste memorie ansaldine hanno poi rappresentato loro stesse storie incredibili che varrà sempre la pena di ricordare e raccontare. Alcuni esempi: il Rex, con il suo indimenticabile varo e la traversata record che, nel 1933, gli valse il nastro d’argento. Oppure il biplano SVA con il quale D’Annunzio, insieme al meno famoso ma altrettanto eroico Pauli, sorvolarono Vienna nell’agosto 1918 e con il quale il tenente Ferrarin arrivò a Tokio nel 1920, dopo 112 ore complessive di volo coperte in poco più di 3 mesi dalla partenza da Guidonia.

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Molte sono le analogie e i punti in comune di queste storie con la nostra attualità. La necessità di uomini come Giovanni Ansaldo con visione strategica e coraggio, in sinergia con la politica, con la finanza e con la società civile. L’importanza di comprendere il valore delle infrastrutture e della loro modernizzazione, pilastri sui quali innestare e fare leva con progetti industriali di respiro, in grado di garantire innovazione e sviluppo socio-economico reale, cioè concreto ed equilibrato.

È dalla storia, e dalla sua rilettura, che si può capitalizzare l’esperienza di chi ci ha preceduto, i valori che hanno espresso, evitando di ripeterne gli errori. È sempre la storia, con le sue lezioni, che ci può ispirare e poi spirare sulle vele di quella nave con la quale fare rotta verso gli obiettivi che ci prefiggiamo, purché in un disegno e in un piano complessivi, senza i quali non approderemmo in nessun porto.

Immagini provenienti dall’Archivio Giovanni Battista Ansaldo (Fondazione Ansaldo)