Eligio Imarisio, accademico di merito dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, ci ha inviato questo breve racconto che volentieri pubblichiamo in ricordo di Giuliano Montaldo, genovese, regista, sceneggiatore e attore, scomparso ieri a Roma.

 Genova ritratto di una citta

Genova, ritratto di una città, documentario di Giuliano Montaldo, 1964

Nell’ambito del racconto a puntate “Futuro della Memoria” pubblicato lo scorso anno da “la Repubblica” d’intesa con Fondazione Ansaldo, Giuliano Montaldo ed Eligio Imarisio scrissero un pezzo dal titolo assai significativo: Achtung! Banditi! Quella lezione senza tempo che continua a parlarci di fabbrica e di Liberazione.

Tra le migliaia di documenti, di fotografie e di fotogrammi che la Fondazione custodisce, una parte considerevole attiene agli anni della Seconda Guerra Mondiale, alla produzione bellica, al movimento operaio di fabbrica, alla Resistenza e, appunto, alla Liberazione. In ambito cinematografico, un film narra quegli eventi: si tratta proprio di Achtung! Banditi! che Carlo Lizzani gira nel 1951 a Genova, soprattutto in Val Polcevera.

Giuliano Montaldo, al suo esordio come attore, non ha mai dimenticato quel film e quei luoghi divenuti set cinematografici; in centinaia di interviste, in colloqui privati, ed era solito ricordarne episodi su episodi a volte curiosi, altri spassosi, altri ancora amari. Luoghi rivissuti come set nel novembre 2008 con l’iniziativa “Giornata Achtung! Banditi!”, curata dal Municipio Valpolcevera in collaborazione con gli enti locali genovesi e liguri. In quella giornata, Carlo Lizzani e Giuliano Montaldo si aggirarono, quasi una serie singolare di replay, sulla Piazza Pontedecimo, lungo i binari della stazione Trasta, sul greto del torrente Polcevera prossimo agli stabilimenti Ansaldo, per poi finire a Palazzo Ducale accolti da pubblico, stampa ed autorità.

Giuliano Montaldo non ha mai dimenticato la fabbrica ed il lavoro di fabbrica: merita il nostro commosso ricordo.

 
 
 

Continua l’emozionate storia alla scoperta del relitto dell’Andrea Doria nelle profondità dell’oceano: il racconto di una “passeggiata” subacquea ricca di dettagli ed emozioni.

Relitto dellAndrea Doria le tre bitte di poppa sulla murata sinistra Courtesy PHY Diving EquipmentRelitto dell'Andrea Doria, le tre bitte di poppa sulla murata sinistra, Courtesy PHY Diving Equipment

Arrivato al punto di ancoraggio sul relitto, non trovo più lo spool che avevo lasciato la mattina. Tranciato dalla corrente, sparito. Meno male che è rimasta l’altra sagola di diametro maggiore che avevamo posizionato durante il primo giorno di immersioni. Conto le bitte: prima due, poi tre. Eccoci. È qui che bisogna attraversare la chiglia per raggiungere la maestosa elica di sinistra.

Sotto murata la corrente è bassa, un nodo, niente in confronto ai quattro e cinque nodi a cui eravamo sempre abituati. Oltre la paratia quanto sarà intensa?

Ho ancora ben in mente il ricordo del primo giorno quando affacciandomi ho sentito la pelle del mio volto essermi strappata dalla faccia. Mano sinistra e mano destra sono ben salde al relitto. Alzo lo sguardo, non sento forze ostili. Dopotutto la forma della chiglia dell’Andrea Doria funge da rampa di lancio per la corrente che accelera sulla forma curvilinea del suo scafo. Trovarsi dall’altro lato significa essere scagliati a tutta forza oltre il relitto e quindi perderne il contatto. Decompressione in libera, attivazione delle procedure di sicurezza in superficie e successiva ricerca del subacqueo disperso con il piccolo natante di supporto della D/V Tenacious.

Ecco perché nessuno, o quasi, si avventura fuori dalla protezione che il relitto offre attraverso l’angolo creato dai suoi ponti in rapporto al fondale dell’Oceano. L’eccesiva e impenetrabile corrente è il motivo per cui i due tentativi precedenti sono falliti. O meglio abbiamo rinunciato, onde evitare conseguenze estremamente difficili da gestire.

Joe Mazraani trova un oblò lungo la murata di sinistra, pochi metri dopo aver oltrepassato la battagliola. Conficca lì la sua luce stroboscopica, la mia l’ho lasciata sulla linea di discesa. Il senso di posizionare qui una seconda luce lampeggiante è quello di ritrovare la via. Il tratto di chiglia da percorrere è ampio, la visibilità non permette comunque di muoversi a vista. Lungo lo scafo la corrente accelera, esattamente come mi aspettavo. Avere un’indicazione della via più breve per il rientro è un buon supporto mentale.

Ho lasciato le tre bitte alle mie spalle, ora pinneggio in direzione dell’elica. Impiego qualche minuto per raggiungere la profondità di settanta metri. Una forza a me contraria limita la mia velocità di progressione. Poi d’improvviso, appare dal nero. Sento Joe chiamarmi: “Andrea! It’s here”. È per lui la prima volta dopo quasi un centinaio di immersioni sul relitto. È per me il senso del viaggio. Vedo subito due pale, poi conto le altre. Inizio a filmare, ma quando arrivo di fianco alla pala e vedo lo spessore di cui è composta resto estasiato. È una lama sottile, precisa, possente. La forma di ogni pala è qualcosa di magico che diviene armonia nella visione d’insieme. Giro tutt’attorno all’elica, per un attimo mi sento Nijinskij

L’elica è tanto grande che non riesci a vederla contemporaneamente da una parte all’altra. Sotto la coltre soffice di anemoni, da qualche parte, è ancora scritto il nome “Genova”. Quando sono partito mi sarebbe piaciuto replicare il gesto di Stefano Carletti, in una sorta di omaggio al maestro, e portare alla luce il nome della città in cui questa Signora del mare è nata.

A dire il vero, una spazzola a bordo della D/V Tenacious c’era. Tutti i giorni la guardavo, ma oggi quando sono sceso non ci ho creduto abbastanza. Pensavo che la corrente non mi permettesse di andare all’elica, tanto che il piano principale era divenuto quello di muoversi in direzione del centro nave per fare altri filmati e raccogliere più immagini del relitto. Eppure, una volta sul fondo, ho valutato che le condizioni fossero idonee almeno per provarci. E così, l’Andrea Doria si è mostrata. La nave per la prima volta si è davvero concessa.

varo Andrea DoriaL’Andrea Doria il giorno del varo,Fotografia proveniente dalla Fototeca di Fondazione Ansaldo

Il bulbo è affusolato come un proiettile. Il bulbo è bello come un’opera di Michelangelo e raffinato nella forma come un calcolo ingegneristico di Leonardo. Qui, da questi dettagli, si capisce la bellezza della nave. L’Andrea Doria era un capolavoro galleggiante, non era soltanto un transatlantico di lusso.

L’Andrea Doria alcuni decenni fa doveva essere l’ottava meraviglia del mondo da ammirare sott’acqua. Oggi le devastanti correnti e le burrasche oceaniche l’hanno parzialmente distrutta.

Un capolavoro però lo riconosci dal dettaglio. Non serve vedere tutta l’opera di un maestro rinascimentale per capire quanto fosse bello l’intero quadro, ne basta una parte. Una parte descrive il tutto.

Se vai a Firenze, Roma, Milano, Venezia, Napoli o Palermo, Urbino, Parma o Genova, ovunque tu vada puoi percepire la grandezza dell’Italia che fu. E così è sull’Andrea Doria, ovunque tu vada percepisci l’italianità. Cosa significa essere italiani? Questo è un valore che il nostro popolo calpesta e bistratta, eppure lo Stivale ha qualcosa da trasmettere a chiunque si imbatta nel suo senso culturale.

Qualcuno dice che vedere oggi l’Andrea Doria non abbia senso poiché sta scomparendo. Il senso invece è proprio questo, vederla prima che scompaia per sempre. Dopotutto, anche andare a Roma e vedere il Colosseo ha senso anche se è lacunoso di molte parti, anche se la sua architettura è ormai frazionata e ben diversa dall’originale Teatro Flavio. “Begli edifici, meravigliose rovine”, così diceva Louis Khan, architetto americano che ha trovato le sue radici nell’architettura del passato.

Belle navi, meravigliosi relitti.

È giunto il tempo che la mia danza attorno all’elica rinascimentale dell’Andrea Doria finisca. Devo andarmene, non prima però di averla fatta mia. L’abbraccio, ma in realtà mi sento avvolto da lei. Con la mano destra l’accarezzo e la ringrazio per l’opportunità che mi ha dato. Come ho già detto in passato, bisogna essere in due perché i miracoli avvengano in un relitto. “Il sogno era sempre stato davanti a me, in fuga. Raggiungerlo, trascorrevi un momento all’unisono, quello era il miracolo”.

E così, prima di girarle le spalle, mi sono tolto l’erogatore di bocca e ho appoggiato le labbra sulla prima pala in cui mi ero imbattuto. Un lungo arrivederci, poi ho ripreso la via dell’opera viva.

La chiglia risalendola mi è sembrata verticale. La corrente iniziava a farsi sentire nuovamente e così, per non divenire sua facile preda, ho risalito la china quasi in verticale. Ho scalato il mio pezzo di K2 con le mani. Non ho nuotato lungo lo scafo, l’ho proprio risalito bracciata dopo bracciata, dopotutto il mio cognome un senso di montagna lo porta e quindi mi è sembrato più che giusto onorare la “Nave degli italiani” in questo modo.

Mi sono riparato sotto murata. Sono tornato verso il pedagno a favore di corrente. Ho guardato il manometro e dato che i consumi erano assai bassi e contenuti mi sono concesso un ultimo giro di valzer sul relitto. Ho tenuto la linea degli oblò sulla murata di sinistra come riferimento per arrivare al poggia lancia dell’ultima scialuppa della murata. Poi sono sceso di quota e sono riuscito a guardare dentro l’Andrea Doria. Ho intravisto gli interni, ho allungato le braccia e ho provato a filmare quel che potevo tenendomi con una mano sempre ben saldo al relitto. Qui per la prima volta mi sono mosso senza sagola guida. La tentazione era quella di continuare e guardare sempre più in là, poi però mi sono fermato e ho interrotto bruscamente la mia voglia di continuare ad esplorare il relitto.

“Se la corrente tornasse all’improvviso?”.

Dopotutto questa stanca è stata una sorta di miracolo improvviso. Quando mi immergevo in Irlanda alcuni anni fa, a Malin Head, a bordo sempre dicevamo che alla prima avvisaglia di corrente crescente quello era il segnale di chiudere l’immersione. E così ho fatto, anche questa volta, dall’altra parte dello stesso Oceano.

Prima di lasciare il relitto, l’ho guardato. Ho poggiato la mia mano destra sulla sua murata e ho detto alla bella Nave che giace sul fondo dell’Atlantico: “Allora torno a trovarti”.

In decompressione mi sono commosso.

Il sogno era diventato realtà.

 ANDREA MURDOCK ALPINI mentre carica le attrezzature subacquee a bordo della DV Tenacious courtesy PHY Diving Equipment

Andrea Murdock Alpini mentre carica le attrezzature subacquee a bordo della DV Tenacious,courtesy PHY Diving Equipment

 

L’archivio Giovanni Battista Ansaldo è una fonte inesauribile di storie da raccontare. Dalla corrispondenza con il giornalista Giovanni Ansaldo, si può indagare il passato con gli occhi di chi ha vissuto un determinato periodo storico. Lettere, cartoline, ritagli di giornale da cui ricaviamo il ritratto di donne, uomini che hanno lasciato una traccia di sé, una traccia che permane nel tempo.

Nella rubrica “Storie di donne” continua il viaggio alla ricerca delle grandi menti femminili. Sulla scia delle storie precedenti, dove le protagoniste erano Sibilla Aleramo e Marie Bentivoglio, approfondiamo le vicende personali e professionali di un’altra donna intellettuale vissuta nel Ventennio fascista, Camilla Bisi.

Camilla Bisi (1893-1947). Un nome che forse non suggerirà molto. Romana d’origine, cresce in un ambiente intellettuale, con il padre scultore e pittore e la madre letterata e pedagogista. La madre ha un’importante influsso nell’educazione della giovane Camilla, grazie alla sua formazione culturale e ai lavori professionali in ambito giornalistico, riservati ai ragazzi e alle donne.

Si trasferisce poi a Genova, che diventerà sua città d’adozione, per studiare giurisprudenza e lì conosce Giovanni Ansaldo. Nasce una grande amicizia ed è tangibile nella corrispondenza, l’affetto e la stima che la Bisi nutriva per l’Ansaldo. Il rapporto tra i due si rafforza anche a livello professionale, con Giovanni Ansaldo, avviato a un eccellente carriera in ambito giornalistico, direttore del quotidiano genovese “Il Lavoro” e Camilla Bisi tra le sue giornaliste di punta.

Il Lavoro Invasione dellEtiopia di Giovanni Ansaldo 03 10 1935

Il Lavoro, Invasione dell'Etiopia, di Giovanni Ansaldo, 03-10-1935

Oltre al lavoro in redazione, la Bisi è fortemente impegnata in ambito culturale. Tra le sue esperienze più emblematiche vi è la fondazione della casa editrice “Ragazze” con cui pubblica e dirige l’omonima rivista quindicinale per signorine. L’impegno della Bisi, in un’epoca di forte chiusura verso il mondo femminile, è significativo: occuparsi dei problemi interessanti l’educazione e la cultura delle fanciulle. In particolare nel Ventennio, la spinta per l’emancipazione femminile si arresta, e alle donne si riservano prettamente compiti legati alla maternità, dove l’istruzione, la cultura non sono necessarie. Il fenomeno dell’analfabetismo, ancora elevato in Italia, soprattutto nelle aree rurali, coinvolgeva principalmente le donne, indirizzate fin dalla tenera età a mansioni casalinghe. Parlare di cultura per le ragazze, per le donne, interessarsi alle problematiche dell’universo femminile, è sicuramente una grande novità per l’epoca e la Bisi in questo senso è una precorritrice.

All’attività editoriale, giornalista, di scrittrice, con opere significative quali la raccolta di novelle Essere donna, Bisi unisce la sua passione per la poesia. Dall’Archivio Giovanni Battista Ansaldo emerge un lavoro “dimenticato” nella corrispondenza con Giovanni Ansaldo: “Il canto della vera d’oro” che ci riporta a un momento importante della storia italiana e del Ventennio fascista, la guerra d’Etiopia.

  Il canto della vera doro di Camilla Bisi 18 12 1935

Il canto della vera d'oro, di Camilla Bisi, 18-12-1935

Nel 1935 scoppia il conflitto con il paese africano, membro della Società delle Nazioni. Il regime è abile a preparare, sia a livello logistico sia a livello propagandistico, la guerra coloniale. Lo spiegamento di mezzi e risorse è enorme, con Mussolini che gioca la sua credibilità sull’esito positivo del conflitto. L’Etiopia protesta ufficialmente per l’aggressione subita e le reazioni internazionali sono durissime. Gran Bretagna e Francia appoggiano l’Etiopia e impongono, tramite Società delle Nazioni, un embargo all’Italia sulle esportazioni e sulle importazioni di materiali per l’industria bellica. L’isolamento (parziale) della comunità internazionale, vissuto in Italia come una profonda ingiustizia, scatena un’ondata di patriottismo. Una manna dal cielo per il regime che riesce a garantirsi il sostegno e l’appoggio incondizionato delle masse. Il consenso alla guerra è manifestato con un evento passato alla storia: l’Oro alla Patria. La partecipazione del popolo italiano è imponente e, salvo qualche voce discordante, le classi dirigenti e il mondo intellettuale sostengono a gran voce la necessità di un appoggio simbolico al regime. Benedetto Croce, Luigi Pirandello, che dona la medaglia da premio nobel per la causa, sono solo alcuni tra i nomi più importanti che aderiscono alla manifestazione.

Le donne si ergono tra le protagoniste dell’evento; in massa, senza distinzione di classe, donano le vere nuziali, come atto simbolico di unione con lo stato fascista. L’adesione del mondo intellettuale coinvolge anche Camilla Bisi che scrive una poesia a memoria della storica giornata del 18 dicembre del 1935, il già citato “canto della vera d’oro”.

Protagonista della poesia è la vera nuziale, personificazione della fedeltà. Simbolo eterno d’amore, nella vita e nella morte. Solo un evento più grande, la missione imperialista che il regime aveva individuato per gli italiani, poteva distaccare la vera dalla sposa, rompendo il patto giurato per un patto ancora più santificato, il sacrificio per la patria. Svilisce il valore materiale, da oro a ferro, ma accresce il valore spirituale. È il trionfo dello stato sul singolo individuo, che come ogni piccola vera nuziale fonde la propria identità con quella del regime.

Camilla Bisi morirà a Genova nel 1947, poco dopo l’immane tragedia della Seconda guerra mondiale. Di lei rimane il suo forte impegno per le donne, per la cultura, come via salvifica per una maggiore emancipazione. L’appoggio al regime e il “Canto della vera d’oro”, rientrano in una condizione di ambiguità che coinvolge buona parte dell’intellighenzia italiana nel Ventennio. Come Giovanni Ansaldo, anche la Bisi è antifascista, per poi gradualmente avvicinarsi al regime, forse per opportunismo, soprattutto negli anni Trenta.

Al di là delle valutazioni personali, il canto della vera d’oro, con la sua forte valenza simbolica racchiude un momento importante della storia italiana, che è interessante studiare, per comprendere e interpretare un’epoca. Un passato che non è possibile cancellare, ma che dev’essere conosciuto in funzione didascalica. La storia sa essere scomoda, ma insegna come poche discipline al mondo. È un lungo viaggio, dove l’essere umano, con non poche difficoltà, ha elevato e continua ad elevare sé stesso. La storia è la cartina tornasole che permette la conoscenza e la comprensione della nostra identità, fragile e forte allo stesso tempo.

Cerchio d’amore, strinsi la tenue falange di sposa.
Per me nuziale fu il rito, la mano fu benedetta.
Roseo-turbata la sposa mi soppesò con orgoglio;
chiudeva per lei, nel mio giro, il segreto di tutta una vita.
Passarono i giorni – gioia dolore – raggiunti da settimane, da anni.
Una donna, oramai, una mamma pensosa mi custodiva.
Oro della sua vita, logorata, saldata al suo dito,
ero per lei più che l’amore: il suggello di una promessa.
A qualcuna mentii. Dischiusi per qualcuna speranze che non mantenni.
Per altre fui l’anello fissato ad una bara.
Ma quasi nessuna, rimasta a piangere un vivo o un morto,
osò strapparmi alla sua carne, spezzare il patto giurato.
Oggi, per tutte le spose – per le invecchiate,
per le disilluse, per le felici amate fino al tramonto,
ritorno cerchio d’amore, vera d’amore, purissima d’oro.
Si piccola! E greve per tutto l’amore che porto,
cara sopra ogni cosa. Più di ognuna sacrificata.
Amore fu il mio nome, e la fede mi benedisse.
Oggi mi chiamo carta, ferro, essenza, carbone.
Come un raro olocausto, doppiamente santificato,
in cima, su tutto l’oro che il Popolo dona alla Patria.

La maggior parte di noi conosce la grandiosa, e triste, storia dell’Andrea Doria. Un maestoso transatlantico costruito nei Cantieri navali Ansaldo di Genova Sestri Ponente e varato il 16 giugno 1951. Partì per il suo primo viaggio, da Genova a New York, il 14 gennaio 1953.

La turbonave è stata per l’Italia motivo d’orgoglio e simbolo di rinascita dopo la Seconda guerra mondiale. Era considerata infatti la più bella nave passeggeri e venne soprannominata l’elegante Signora del mare, all’estero conosciuta come la Grande Dame.

Purtroppo la sua carriera non durò a lungo, a poco più di 3 anni dal suo viaggio inaugurale, nella notte del 25 luglio 1956, venne speronata dal mercantile svedese Stockholm. Iniziò così la sua discesa verso gli abissi, portando con sé 46 vite.

Tuttavia la sua storia non finì con questo suo ultimo e triste viaggio, che infatti continua tutt’oggi, anche attraverso la penna di Andrea Murdock Alpini: esperto di immersioni subacquee su relitti, che è riuscito a documentare con fotografie e filmati le condizioni attuali di quello che resta dell’elegante Signora del mare.

Oggi ci racconta la prima parte delle sue avventure.

Varo dellAdrea Doria immagine di Fondazione Ansaldo

Varo dell’Adrea Doria, immagine di Fondazione Ansaldo

PARTE I

Il giorno che abbiamo lasciato le cime a terra a Montauk, qualche ora prima di completare il carico e rizzarlo, stavo leggendo i Diari Antartici per ingannare l’attesa. A pagina 118 ho trovato una frase di Shackleton che mi ha particolarmente colpito.

Finalmente siamo in marcia dopo quattro anni di preoccupazione, di lavoro.

Auguro a tutti noi il successo perché ho dedicato a questa impresa tutte le mie forze.

Oggi mi trovo in mezzo all’Oceano Atlantico, finalmente ancorato sopra l’Andrea Doria. È giunta l’ora di compiere delle scelte. Arrivare fin qui è stata l’impresa. Ora bisogna raccontare la nave, ma anche il relitto.

La sicurezza è un aspetto a cui spesso ho pensato prima, ma soprattutto durante queste immersioni sull’Andrea Doria. I problemi ad essa connessi dipendono in larga parte dalla distanza della costa. La corrente è sempre presente e forte, determinata a strapparti dalla barca per farti ritrovare a molte miglia di distanza, in mezzo a un oceano sconfinato e ruvido. La profondità è un problema relativo se non legato al tempo di fondo, ovvero al tempo di decompressione.

Ho pensato così tanto al fattore della sicurezza che la mia decisione iniziale è stata quella di non svolgere immersioni della durata superiore alle due ore. Centoventi minuti sono un buon compromesso tra le condizioni ambientali e il tempo di fondo. Anzi, durante la seconda immersione che ho effettuato sul relitto, tanto era scarsa la visibilità che ho deciso di tagliare il tempo di fondo per evitare un’inutile lunga decompressione dato che non avrei ottenuto nessuna buona immagine ma solo scampoli di relitto.

È stato un lungo percorso quello che mi ha condotto sul relitto dell’Andrea Doria. Da una parte il sogno che avevo da bambino, dall’altra quello del giovane adulto che vuole confrontarsi con il passato della subacquea ma che allo stesso tempo guarda al futuro di questa disciplina.

Un tumulto di pensieri mi attraversa prima di buttarmi in acqua per la terza e ultima volta di questo primo viaggio alla ricerca di ciò che è rimasto della Grande Dame. Il relitto dell’Andrea Doria è spesso appellato come K2 o l’Everest della subacquea. Mi sono sempre chiesto perché proprio quella montagna e non un’altra vetta aspra e difficile da raggiungere? Non so chi abbia chiamato il relitto per la prima volta con questo nome. Il K2 è conosciuto come: “La montagna degli italiani” ovvero un tributo a coloro che sono stati i primi a salirla fino in vetta, il 31 luglio 1954. Due anni dopo e solo una settimana prima di quella data, la bella nave del rinascimento culturale italiano, sociale, politico, economico e manifatturiero affondava al largo del Banco di Nantucket. Nel 1954 la spedizione guidata da Ardito Desio, arrivata tra le montagne del Pakistan, sceglie di raggiungere la vetta del K2 per la via che passa dallo Sperone Abruzzi, là dove Sua Altezza Reale il Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia arrivò e si fermò nel lontanissimo 1909.

Allora qual è lo Sperone Abruzzi dell’Andrea Doria?
La corrente.

Andrea Murdock Alpini durante una delle sue immersioni

Andrea Murdock Alpini durante una delle sue immersio

Questo a mio avviso è il fattore ambientale che maggiormente va gestito in una spedizione su questo relitto. Male interpretare la corrente significa una débâcle totale del viaggio. A volte bisogna aspettare che la sua intensità diminuisca, che il flusso turbolento e travolgente perda progressivamente di forza per far sì che si possa entrare in acqua.

Mi è capitato di vedere l’acqua ribollire in superficie tanta era la sua forza.
Mi è capitato di vedere cime zavorrate trascinate come pagliuzze in ogni dove.
Mi è anche però capitato di vedere improvvisamente la corrente sparire del tutto in una frazione di secondo. Alla fine della prima immersione ho pensato che avrei dovuto rivedere i miei obiettivi, sia per l’intensità della corrente sia per le condizioni del relitto stesso. Uno schiaffo mi aveva dato la Grande Dame in quella prima occasione d’incontro. Prima di buttarmi in acqua per la seconda volta mi sono lungamente parlato per autoconvincermi e trovare la forza di affrontare al meglio quel secondo tuffo: “Dai! È solo maledetta corrente!”. La terza occasione ero deciso a non sprecarla, volevo qualcosa di più dall’Andrea Doria. Quello che volevo io bisognava ora vedere che lo volesse anche lei.

Siamo al quarto di luna e la corrente è ai suoi picchi. Dentro di me spero che succeda come al mio amico Stefano Carletti durante la sua ultima immersione qui, nel lontano 1968. Allora la corrente si era improvvisamente placata e per la prima volta Stefano Carletti, Bruno Vailati e Al Giddings videro davvero l’Andrea Doria, in una sorta di stato di grazia.

Quando ho visto il relitto per la prima volta, toccando la murata di sinistra, ho sussurrato alla nave: “E così sei tu, l’Andrea Doria”. Nonostante sapessi molto della nave non sapevo nulla del relitto, almeno finché non mi sono imbattuto nel suo incontro. Adesso sono in acqua, inizio a respirare per lasciare la superficie e già dai primi pugni che afferrano la cima mi accorgo che adesso qualcosa è cambiato. L’acqua ha un colore diverso, la densità è differente, ma soprattutto la corrente è assai meno intensa, sembra quasi che stia sparendo. Il tratto che di solito impiego due minuti a compierlo adesso l’ho coperto in meno di un minuto. Il vetro della mia maschera per la prima volta non è inondato da plancton e nutrienti che mi sbattono addosso in continuazione. Ora, finalmente vedo. A ventisei metri alzo lo sguardo e scorgo la cima che non traballa come le gambe di un ubriaco che si aggira tra i carruggi. La cima è dritta, tesa. Più scendo e più non si muove. Non posso crederci. Questa deve essere finalmente l’occasione che aspettavo. È giunto il momento di andare all’elica.

 Andrea Murdock Alpini illumina lelica dellAndrea Doria Courtesy DV Tenacious e PHY Diving Equipment

Andrea Murdock Alpini illumina l'elica dell'Andrea Doria, Courtesy DV Tenacious e PHY Diving Equipment

 

 

Dal meraviglioso mondo della Fondazione Ansaldo emergono personaggi poco conosciuti o dimenticati. L’archivio ha questa capacità enorme, riporta alla luce emozioni sommerse, da esso scaturiscono storie di personaggi fagocitati dal tempo ma non dalla storia. In particolare l’Archivio Giovanni Battista Ansaldo è un crogiuolo di tante piccole/grandi individualità che ci aiutano a inquadrare meglio la società otto-novecentesca e il periodo storico di riferimento.

Donne al lavoro

Fototeca FA -Donne al lavoro - anni '10-'20 del sec. XX

Marie Bentivoglio non fu una donna qualunque. Grazie alla sua corrispondenza con il giornalista Giovanni Ansaldo, tra il 1936 e il 1939, riusciamo ad avere il ritratto di una donna forte, ricca di cultura e di aspirazioni. Ma chi era Marie Bentivoglio? Nata da genitori italiani a Torino nel 1898, si trasferì in tenera età a Sidney in Australia. Il padre, personalità colta, appartenente all’élite della società bolognese, era ingegnere e professore di italiano al conservatorio di musica di Sidney. La giovane Marie crebbe sicuramente in un contesto stimolante e, grazie alle sue doti straordinarie, sviluppò un sapere enciclopedico. Nel 1920, all’università di Sidney, ottenne la prima laurea con lode come dottore in Scienze, vincendo ben tre borse di studio. Le sue capacità non sfuggirono in ambito universitario e presto ricevette la chiamata della celebre università di Oxford. In Inghilterra, perseguì con costanza i suoi studi laureandosi a pieni voti in Geografia nel 1924 e due anni dopo ottenne il medesimo riconoscimento in Filosofia. Quest’ultimo successo fu motivo d’orgoglio per la giovane Marie che ben lo esprime in una lettera a Benito Mussolini, conservata nel nostro archivio. Nel curriculum allegato, ricordava come fosse la prima donna ad ottenere la laurea di filosofia ad Oxford.

Mente geniale e figura controversa, è oggi un personaggio poco conosciuto. Come mai? Probabilmente la sua vita all’estero e la sua adesione al regime fascista ne fecero un personaggio scomodo, o comunque un personaggio di cui non valeva la pena fare menzione. Marie, però al di là delle sue convinzioni politiche, fu sicuramente una donna straordinaria. I suoi studi la portarono a tenere diverse conferenze in ambito universitario, negli Stati Uniti e in Australia. Ottenne prestigiose cariche onorifiche nelle università australiane, che le valsero il rispetto e l’ammirazione del mondo anglosassone. Che rapporti ebbe con l’Italia? Di lei abbiamo un breve rapporto epistolare con Giovanni Ansaldo, dove allega proprio la famosa lettera indirizzata a Mussolini.

Archivio G.B.A. Lettera di Marie Bentivoglio a Giovanni Ansaldo 02 01 1939

Archivio G.B.A. - Lettera di Marie Bentivoglio a Giovanni Ansaldo, 02-01-1939

Marie, donna fortemente patriottica, percepiva un affetto profondo per il Belpaese e negli anni ’30 si prodigò in tutti i modi per promuovere all’estero l’immagine dell’Italia e del Fascismo. Come spiegare questi sentimenti per Mussolini e per il movimento da lui incarnato? I successi in politica estera a metà degli anni ’30, l’immagine che il Duce soleva presentare, quella di un’Italia rivitalizzata, grande potenza al tavolo delle grandi potenze, sulle orme del glorioso Impero Romano, probabilmente sedusse la Bentivoglio. Nonostante il perfetto inserimento nel mondo anglosassone e nei Women’s Club, le organizzazioni femminili dal grande peso politico e culturale, Marie rimase profondamente legata alla madrepatria e Mussolini, nella sua visione intellettuale e politica, rappresentava l’uomo che aveva dato dignità e forza a un paese povero e in gran parte arretrato.

La storia ha raccontato poi un esito che ben conosciamo, ma è interessante osservare l’opinione di una donna intellettuale e peraltro inserita in un contesto profondamente diverso da quello dell’Italia del Ventennio. È indubbio che il Fascismo ebbe ammiratori anche nel mondo anglosassone, ma Marie, nella lettera indirizzata a Mussolini, parla di un’opinione pubblica (americana) ostile al Fascismo. Sono gli anni immediatamente successivi alla conquista dell’Etiopia, gli anni dell’autarchia in virtù delle sanzioni promulgate dalla Società delle Nazioni, anni in cui l’opinione pubblica anglosassone, in primis inglese è impegnata nel contrastare l’espansionismo fascista. La Bentivoglio, spinta dal suo fervore patriottico si prodigò in una serie di conferenze negli Stati Uniti volte a propagandare l’immagine positiva dell’Italia e del Fascismo. La lettera indirizzata a Mussolini, a mio parere, non è solo la ricerca di un appoggio o di un sostegno. Marie non ne aveva bisogno, in virtù della sua proficua attività professionale. La Bentivoglio si offre come appoggio politico e presenta a Mussolini un mondo che non conosce, quello delle organizzazioni femminili o “Women’s club”. L’opinione pubblica femminile anglosassone ha una sua forza, una sua collocazione, non può essere esclusa dal dibattito politico dell’epoca. Le organizzazioni hanno un’influenza sulla società, che non può essere trascurata.

Archivio G.B.A. Lettera di Marie Bentivoglio a Mussolini con curriculum05 11 1936

Archivio G.B.A. - Lettera di Marie Bentivoglio a Mussolini con curriculum, 05-11-1936

Mussolini diede una risposta? Capì l’importanza della propaganda femminile per far breccia nell’opinione pubblica americana? Non lo sappiamo, ma è interessante osservare come le donne non fossero semplici spettatrici in un mondo a tinte azzurre, ma impegnate in politica, propositive, con idee diverse, ambiziose e in carriera. Si può discutere sugli ideali della Bentivoglio, sviluppati in un’epoca profondamente diversa da quella attuale, ma è interessante constatare l’attivismo di una donna degli anni ’30 del XX secolo. Una donna che ottenne numerosi riconoscimenti in campo universitario e un primato straordinario per l’epoca. Una donna fieramente italiana, nonostante i tanti anni vissuti all’estero, una donna di successo in gran parte dimenticata. Una piccola, grande protagonista di un mondo complesso e contradditorio, di un mondo drammatico e spietato. La storia è questa, cancellare non nasconde il passato, comprendere, leggere la realtà con occhi distaccati, contestualizzandola in quel momento, non in quello attuale, è la più grande lezione di vita.