#Storiedaraccontare

GIORGIO BERGAMI, Fotografare gli altri
Giorgio e l’Archivio storico Ansaldo
Un ringraziamento a Giorgio Bergami per un corposo e prezioso contributo di informazioni e conoscenze che lui e la sua Publifoto diedero a suo tempo all’Archivio storico Ansaldo nell’opera di salvaguardia della documentazione fotografica di interesse storico.
Un contributo, questo di Bergami, che, per essere meglio compreso nelle sue dimensioni e nella sua importanza, deve essere letto insieme alle vicende dell’ Ansaldo di Sampierdarena, società dove io entrai nel 1979.
Il giovane fotogiornalista Giorgio Bergami_Anni '60
In quella tornata di tempo l’ Ansaldo, azienda elettromeccanica con circa 20mila addetti, era il fulcro di un profondo processo di ristrutturazione strategico-organizzativa che coinvolgeva aziende del comparto termo-elettromeccanico pubblico italiano e che aveva come obiettivo la costituzione di un unico e moderno polo in grado di competere sui mercati internazionali. Fu questa quasi una rivoluzione per quei tempi, una rivoluzione che, non dimentichiamolo, è costata molto cara a Carlo Castellano, il suo principale ideatore, che per questo suo piano fu ferito in modo grave e permanente.
Si era di fronte – dicevamo – ad un profondo restyling industriale, che coinvolgeva diversi siti produttivi e che portava a grandi cambiamenti. Si pensi, per fare un solo anche se importante esempio, all’introduzione dell’informatica e alle ricadute di questa sulle attività produttive, sull’organizzazione del lavoro. Ma la grande novità, la cosa fino ad allora più distante dal lavoro industriale comunemente inteso, fu l’idea, geniale, di mettere idealmente nel cuore di questo processo la storia dell’Ansaldo. Una storia che, a parte qualche addetto ai lavori, nessuno ricordava più.
In realtà, come oggi tutti sappiamo, si trattava di una grande storia industriale che partiva nel 1853, ancor prima dell’unità d’ Italia dove l’Ansaldo è arsenale dei garibaldini, è l’azienda che progetta e costruisce le prime locomotive italiane, che si afferma sui mercati esteri già nell’800, che fornisce i cannoni per la vittoria nella Grande Guerra, gli aeroplani per il volo di Ferrarin su Tokio, le grandi e lussuose navi da record come il Rex etc etc… una “bella” storia, fatta di non comuni capacità progettuali e costruttive da utilizzare nella comunicazione, nella costruzione di un’immagine o di un’identità aziendale, nel marketing, negli eventi aziendali….una storia alla quale poter far riferimento in un momento in cui l’ Italia veniva rappresentata dal settimanale Der Spiegel con l’immagine di copertina di una pistola P38 sopra un piatto di spaghetti.
Una storia aziendale, con tutto quello che c’è intorno in termini di economia, società e cultura, che da quel momento, per la prima volta nel nostro Paese, si poteva studiare/conoscere, grazie alla consultazione di una documentazione che, non più utile ai fini aziendali anziché essere distrutta viene, attraverso l’Archivio storico Ansaldo, salvaguardata e messa a disposizione della comunità scientifica, del sistema formativo e della collettività.
Insomma, compiuti nel 1979 i primi passi costitutivi, l’Archivio storico Ansaldo, nel 1980, avvia una sistematica attività di raccolta di una documentazione aziendale che subito si presenta più varia, rispetto a quella di un più tradizionale Archivio di Stato. Oltre alla documentazione cartacea (societaria, contabile, amministrativa…) incontrammo una cospicua e straordinariamente varia documentazione tecnica (si pensi alla quantità e varietà dei soli disegni tecnici) e di altri interessanti materiali ancora come, per venire direttamente a noi, le fotografie: corpose raccolte di originali sulla produzione industriale ed il lavoro a partire dalla seconda metà del secolo XIX. Occorrevano a quel punto capacità e conoscenze per la conservazione e la gestione che ancora non avevamo e che, di fatto, non trovavamo in giro.
Sia chiaro che in quel tempo c’era un grande uso della fotografia, e c’era molta attenzione sulla stessa: nel ‘79 Einaudi pubblica il libro della Sontag “Sulla fotografia - realtà e immagine nella nostra società” e ancora, nel 1980, Roland Barthes scrive “La camera chiara, nota sulla fotografia” per limitarci ad un paio di esempi
E ad una riflessione sulla fotografia arriveremo anche noi, con Luca Borzani ed altri …ricordo, in proposito, il convegno internazionale intitolato “Fotografia. Da specchio del reale alla perdita d’identità” che organizzammo nel 1989 dove per la prima volta in Italia si mettevano a confronto studiosi della fotografia, storici, nuove tecnologie e archivisti.
Ma in quel momento, nel 1980, avevamo bisogno di altro, avevamo tra le mani fragili fotografie che andavano catalogate, condizionate e rese consultabili.
PUBLIFOTO:Marinai americani alla Commenda di Prè_Anni '50
Ed è in quel momento che entra in scena Giorgio Bergami.
Io, prima dell’ Ansaldo, non avevo mai sentito parlare, di Bergami o della Publifoto nonostante il fatto che lui fosse un fotografo di peso, noto e la Publifoto fosse, come presto scoprii, una importante agenzia fotogiornalistica italiana nonché un apprezzato fornitore dell’Ansaldo. Publifoto, infatti, da tempo realizzava per Ansaldo servizi fotografici su prodotti, componenti, impianti, eventi. Bergami ci aveva fotografato a lungo e conosceva quindi piuttosto bene l’attività produttiva dell’Ansaldo. Fu la nostra salvezza. Anche perché, lo straordinario e immediato successo non solo scientifico dell’Archivio aveva subito assorbito le nostre poche forze. Si era anche intimoriti dalla quantità del materiale che si andava raccogliendo, inizialmente nell’ordine di alcune migliaia di foto; dubbiosi sul come doversi muovere tra stampe, negativi e quant’altro….
Giorgio Bergami – anziché preoccupato – era deliziato dalla vista di tutto quel materiale, all’epoca costituito soprattutto da lastre di vetro, e incominciò ad affiancarci, ad aiutarci, con indicazioni pratiche nell’organizzazione dell’Archivio, con concreti suggerimenti per la conservazione e, ancor più importante, nell’identificazione del soggetto … qui nell’impegnativa descrizione dei soggetti fotografati, con il luogo e l’epoca dello scatto ricorremmo anche all’esperienza ed alla memoria di anziani ansaldini come Alpinolo Montanesi entrato nel 1910 a dieci anni col padre contremaitre di fonderia, nello stabilimento siderurgico Ansaldo di Campi (poi SIAC) ma ricordo anche Silvano Ferretti, Luigi Pittaluga ricorremmo a riviste e pubblicazioni tecniche d’epoca, a opuscoli pubblicitari e bollettini aziendali … ma avevamo alle spalle anche altri della Publifoto: Silvano e Sergio Bergami e, talvolta, se non ricordo male, Valcarenghi e Goldberg intervenivano a loro volta nella discussione. Si discuteva infatti spesso su un qualche soggetto non molto chiaro, su un termine non adeguato o su una datazione troppo incerta ma il tutto era divertente, la collaborazione era piena e, nonostante le discussioni, il lavoro era sempre più preciso e sempre più veloce.
Bergami, nonostante avesse già un suo bel da fare come fotografo e in quel tempo, forse , anche come regista riusciva ad essere quasi sempre in contatto, se non presente, … secondo me era motivato, oltre che dalla sua passione per la fotografia, dal piacere nel vedere quelle vecchie fotografie industriali finalmente considerate come dei beni culturali; era orgoglioso di quello che si stava facendo. Almeno così mi pareva. Comunque continuammo, con pazienza certosina, a schedare e condizionare materiali fino al 1982. Fino al convegno Ansaldo “Beni culturali, ricerca storica e impresa” dove registrammo una sorta di consacrazione, di riconoscimento, dell’importanza culturale di questo nuovo tipo di fonti archivistiche.
Qui finisce la fase pioneristica dell’Archivio storico Ansaldo.
Anche per la sezione fotografica, con migliaia di fotografie riordinate e 3mila positivi consultabili in album si chiude una fase iniziale, di tipo tradizionale direi … si apre una nuova e diversa fase - tecnologicamente ed economicamente più strumentata - che vede l’applicazione dell’informatica, l’impiego dei primi dischi ottici, l’utilizzo del digitale per arrivare all’oggi, all’attuale imponente dotazione di oltre un milione di fotografie.
Nel 1982, dicevamo, la collaborazione di Giorgio termina ma non finisce il rapporto tra noi due. C’era sempre una qualche iniziativa o un qualche aspetto che ci faceva incontrare. Fin quasi all’ultimo: ricordo che, qualche anno dopo la sua mostra del 2007 qui al Munizioniere, mi volle presso un suo laboratorio in centro storico: lì mi affidò l’Archivio cinematografico del Partito Comunista genovese, un gran bella raccolta di documentari, oggi collocati in Fondazione Ansaldo, del quale per lunghi anni era stato attento e geloso custode.
Con quella donazione Bergami chiudeva consapevolmente il nostro rapporto.
Era il suo addio.
PUBLIFOTO: Benzinaio a Caricamento_Anni '50

In ricordo di Giovanni Gambardella
È mancato Giovanni Gambardella. Anche se avanti negli anni - era del 1935 - Gambardella fino all’ultimo è stato fedele a sé stesso, il roccioso e inquieto manager che tanti hanno conosciuto. In questo senso, un ricordo recentissimo, che precede di poco la sua scomparsa, è quello di un incontro pomeridiano in casa sua dove, ancora una volta, metteva insieme persone dalle più diverse competenze, conoscenze, capacità e saperi, come quelli di una Fondazione Ansaldo a lui cara, alla ricerca di una qualche risposta culturale o economica per una Genova che lui vedeva, con dispiacere, troppo in affanno. Un poco come con il progetto Utopia di diversi anni prima quando, rompendo schemi consolidati, Gambardella ipotizzò il superamento dell’acciaio a Cornigliano.
Laureato in matematica e, infine, Ingegnere nucleare nel 1959 Gambardella diviene, nel 1976, amministratore delegato della NIRA, quindi nel 1983, a.d. del gruppo Ansaldo e ancora, nel 1987, dell’ILVA. Un ruolo corredato da innumerevoli incarichi in organizzazioni scientifiche e industriali come Federacciai, Confindustria, American Nuclear Society o l’American Society of Mechanical Engineers. Dopo il Gambardella alto dirigente d’impresa c’è il non trascurabile Gambardella imprenditore, ma qui in Fondazione non si può non ricordare il Gambardella che, affascinato dalla storia d’impresa, fa subito restaurare questa nostra sede di Villa Cattaneo dell’Olmo e la valorizza come sede di rappresentanza facendola addirittura inaugurare, nel 1986, con una visita del Presidente della Repubblica Cossiga. Ancora nel 2010, Gambardella ci coinvolge con la sua scuola d’impresa ARPA nel progetto formativo Mediterraneo. Un grande progetto che in una cornice di pace e collaborazione tra i popoli promuove la cultura d’impresa tra giovani provenienti dalle tante sponde del mar Mediterraneo. Gambardella, lo si vedeva chiaramente, ne era particolarmente fiero. Ed è questo il ricordo migliore di lui che qui in Fondazione Ansaldo porteremo con noi.

In ricordo di Giuliano Montaldo
Eligio Imarisio, accademico di merito dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, ci ha inviato questo breve racconto che volentieri pubblichiamo in ricordo di Giuliano Montaldo, genovese, regista, sceneggiatore e attore, scomparso ieri a Roma.
Genova, ritratto di una città, documentario di Giuliano Montaldo, 1964
Nell’ambito del racconto a puntate “Futuro della Memoria” pubblicato lo scorso anno da “la Repubblica” d’intesa con Fondazione Ansaldo, Giuliano Montaldo ed Eligio Imarisio scrissero un pezzo dal titolo assai significativo: Achtung! Banditi! Quella lezione senza tempo che continua a parlarci di fabbrica e di Liberazione.
Tra le migliaia di documenti, di fotografie e di fotogrammi che la Fondazione custodisce, una parte considerevole attiene agli anni della Seconda Guerra Mondiale, alla produzione bellica, al movimento operaio di fabbrica, alla Resistenza e, appunto, alla Liberazione. In ambito cinematografico, un film narra quegli eventi: si tratta proprio di Achtung! Banditi! che Carlo Lizzani gira nel 1951 a Genova, soprattutto in Val Polcevera.
Giuliano Montaldo, al suo esordio come attore, non ha mai dimenticato quel film e quei luoghi divenuti set cinematografici; in centinaia di interviste, in colloqui privati, ed era solito ricordarne episodi su episodi a volte curiosi, altri spassosi, altri ancora amari. Luoghi rivissuti come set nel novembre 2008 con l’iniziativa “Giornata Achtung! Banditi!”, curata dal Municipio Valpolcevera in collaborazione con gli enti locali genovesi e liguri. In quella giornata, Carlo Lizzani e Giuliano Montaldo si aggirarono, quasi una serie singolare di replay, sulla Piazza Pontedecimo, lungo i binari della stazione Trasta, sul greto del torrente Polcevera prossimo agli stabilimenti Ansaldo, per poi finire a Palazzo Ducale accolti da pubblico, stampa ed autorità.
Giuliano Montaldo non ha mai dimenticato la fabbrica ed il lavoro di fabbrica: merita il nostro commosso ricordo.

In memoria di Gio Batta Clavarino
Un grande, genovesissimo, uomo di impresa e di visione industriale ha terminato la sua vita terrena: Giovanni Battista Clavarino. Molta della storia recente dell’Ansaldo e dei successi industriali colti nel periodo degli anni ’70 e ’80 della allora “transizione elettronica” sono legati al suo nome e alle sue iniziative. Alessandro Lombardo, già direttore della Fondazione Ansaldo, ha voluto scriverne un ricordo per #storiedaraccontare, perché la storia di Clavarino è davvero da raccontare.
“Gio Batta… chi?” è il titolo di una pubblicazione sulla lunga, proficua e talvolta affascinante vita professionale di Giovanni Battista Clavarino, un libro presentato nel 2014 qui in Fondazione Ansaldo, di fronte ad una piccola folla plaudente costituita da amici, colleghi e conoscenti.
Una vita lavorativa, quella di Clavarino, classe 1927, che a partire dal 1952 si intreccia con la storia stessa dell’Ansaldo, società che contribuisce a far crescere e della quale non a caso diventa Presidente nel 1985. A lui si deve lo straordinario sviluppo dell’Azienda negli anni Settanta e Ottanta con l’elettronica industriale che prima non esisteva, a lui si deve lo sviluppo dell’Ansaldo nella siderurgia, nell’automazione ferroviaria, nell’impiantistica… Sino alla crescita nei mercati esteri, con l’internazionalizzazione dell’Ansaldo, dove personalmente Clavarino creò Ansaldo Argentina, Ansaldo Nigeria, Ansaldo Australia, Ansaldo Arabia Saudita, Ansaldo Russia… Fu un grande successo professionale.
Visita in Ansaldo del Presidente della Repubblica F. Cossiga, Ge-7-11-1986
Ma un successo ancor più grande Clavarino probabilmente lo ha colto con la sua affermazione sociale perché lui arriva sì molto in alto nella piramide sociale, ma è di modesta famiglia operaia. Una famiglia operaia di Sestri Ponente come tante. È quella la sua partenza. Ricordiamo che fino a tutti gli anni Cinquanta (e forse anche più), se eri figlio di operai facevi l’operaio e non l’impiegato o chissà cos’altro. Questa era la norma, non scritta ma in pieno vigore. Ma lui era intelligente. La famiglia lo sostiene. Si laurea a pieni voti nel 1951 in ingegneria elettronica e non si ferma più.
Sarà Commendatore della Repubblica (1982), Grande Ufficiale della Repubblica (1986), Cavaliere del Lavoro (1988). Anche all’estero riceverà riconoscimenti e cariche. Anche dalla Regina Elisabetta II. Lo testimoniano le innumerevoli fotografie che conserviamo in Fondazione dove custodiamo anche una sua lunga video-testimonianza raccolta nell’ambito dell’iniziativa “La Liguria del saper fare si racconta”, finanziata dalla Compagnia di San Paolo. Una registrazione ricca di informazioni, da cui emerge la figura di un uomo che nonostante il successo resta sé stesso, che non dimentica le sue origini, che non dimentica le persone del suo quartiere, che ascolta le richieste degli amici, dei suoi collaboratori. Che tifa, senza se e senza ma, per la sua Sampdoria.

Andrea Doria: la Grande Dame degli abissi Parte II
Continua l’emozionate storia alla scoperta del relitto dell’Andrea Doria nelle profondità dell’oceano: il racconto di una “passeggiata” subacquea ricca di dettagli ed emozioni.
Relitto dell'Andrea Doria, le tre bitte di poppa sulla murata sinistra, Courtesy PHY Diving Equipment
Arrivato al punto di ancoraggio sul relitto, non trovo più lo spool che avevo lasciato la mattina. Tranciato dalla corrente, sparito. Meno male che è rimasta l’altra sagola di diametro maggiore che avevamo posizionato durante il primo giorno di immersioni. Conto le bitte: prima due, poi tre. Eccoci. È qui che bisogna attraversare la chiglia per raggiungere la maestosa elica di sinistra.
Sotto murata la corrente è bassa, un nodo, niente in confronto ai quattro e cinque nodi a cui eravamo sempre abituati. Oltre la paratia quanto sarà intensa?
Ho ancora ben in mente il ricordo del primo giorno quando affacciandomi ho sentito la pelle del mio volto essermi strappata dalla faccia. Mano sinistra e mano destra sono ben salde al relitto. Alzo lo sguardo, non sento forze ostili. Dopotutto la forma della chiglia dell’Andrea Doria funge da rampa di lancio per la corrente che accelera sulla forma curvilinea del suo scafo. Trovarsi dall’altro lato significa essere scagliati a tutta forza oltre il relitto e quindi perderne il contatto. Decompressione in libera, attivazione delle procedure di sicurezza in superficie e successiva ricerca del subacqueo disperso con il piccolo natante di supporto della D/V Tenacious.
Ecco perché nessuno, o quasi, si avventura fuori dalla protezione che il relitto offre attraverso l’angolo creato dai suoi ponti in rapporto al fondale dell’Oceano. L’eccesiva e impenetrabile corrente è il motivo per cui i due tentativi precedenti sono falliti. O meglio abbiamo rinunciato, onde evitare conseguenze estremamente difficili da gestire.
Joe Mazraani trova un oblò lungo la murata di sinistra, pochi metri dopo aver oltrepassato la battagliola. Conficca lì la sua luce stroboscopica, la mia l’ho lasciata sulla linea di discesa. Il senso di posizionare qui una seconda luce lampeggiante è quello di ritrovare la via. Il tratto di chiglia da percorrere è ampio, la visibilità non permette comunque di muoversi a vista. Lungo lo scafo la corrente accelera, esattamente come mi aspettavo. Avere un’indicazione della via più breve per il rientro è un buon supporto mentale.
Ho lasciato le tre bitte alle mie spalle, ora pinneggio in direzione dell’elica. Impiego qualche minuto per raggiungere la profondità di settanta metri. Una forza a me contraria limita la mia velocità di progressione. Poi d’improvviso, appare dal nero. Sento Joe chiamarmi: “Andrea! It’s here”. È per lui la prima volta dopo quasi un centinaio di immersioni sul relitto. È per me il senso del viaggio. Vedo subito due pale, poi conto le altre. Inizio a filmare, ma quando arrivo di fianco alla pala e vedo lo spessore di cui è composta resto estasiato. È una lama sottile, precisa, possente. La forma di ogni pala è qualcosa di magico che diviene armonia nella visione d’insieme. Giro tutt’attorno all’elica, per un attimo mi sento Nijinskij.
L’elica è tanto grande che non riesci a vederla contemporaneamente da una parte all’altra. Sotto la coltre soffice di anemoni, da qualche parte, è ancora scritto il nome “Genova”. Quando sono partito mi sarebbe piaciuto replicare il gesto di Stefano Carletti, in una sorta di omaggio al maestro, e portare alla luce il nome della città in cui questa Signora del mare è nata.
A dire il vero, una spazzola a bordo della D/V Tenacious c’era. Tutti i giorni la guardavo, ma oggi quando sono sceso non ci ho creduto abbastanza. Pensavo che la corrente non mi permettesse di andare all’elica, tanto che il piano principale era divenuto quello di muoversi in direzione del centro nave per fare altri filmati e raccogliere più immagini del relitto. Eppure, una volta sul fondo, ho valutato che le condizioni fossero idonee almeno per provarci. E così, l’Andrea Doria si è mostrata. La nave per la prima volta si è davvero concessa.
L’Andrea Doria il giorno del varo,Fotografia proveniente dalla Fototeca di Fondazione Ansaldo
Il bulbo è affusolato come un proiettile. Il bulbo è bello come un’opera di Michelangelo e raffinato nella forma come un calcolo ingegneristico di Leonardo. Qui, da questi dettagli, si capisce la bellezza della nave. L’Andrea Doria era un capolavoro galleggiante, non era soltanto un transatlantico di lusso.
L’Andrea Doria alcuni decenni fa doveva essere l’ottava meraviglia del mondo da ammirare sott’acqua. Oggi le devastanti correnti e le burrasche oceaniche l’hanno parzialmente distrutta.
Un capolavoro però lo riconosci dal dettaglio. Non serve vedere tutta l’opera di un maestro rinascimentale per capire quanto fosse bello l’intero quadro, ne basta una parte. Una parte descrive il tutto.
Se vai a Firenze, Roma, Milano, Venezia, Napoli o Palermo, Urbino, Parma o Genova, ovunque tu vada puoi percepire la grandezza dell’Italia che fu. E così è sull’Andrea Doria, ovunque tu vada percepisci l’italianità. Cosa significa essere italiani? Questo è un valore che il nostro popolo calpesta e bistratta, eppure lo Stivale ha qualcosa da trasmettere a chiunque si imbatta nel suo senso culturale.
Qualcuno dice che vedere oggi l’Andrea Doria non abbia senso poiché sta scomparendo. Il senso invece è proprio questo, vederla prima che scompaia per sempre. Dopotutto, anche andare a Roma e vedere il Colosseo ha senso anche se è lacunoso di molte parti, anche se la sua architettura è ormai frazionata e ben diversa dall’originale Teatro Flavio. “Begli edifici, meravigliose rovine”, così diceva Louis Khan, architetto americano che ha trovato le sue radici nell’architettura del passato.
Belle navi, meravigliosi relitti.
È giunto il tempo che la mia danza attorno all’elica rinascimentale dell’Andrea Doria finisca. Devo andarmene, non prima però di averla fatta mia. L’abbraccio, ma in realtà mi sento avvolto da lei. Con la mano destra l’accarezzo e la ringrazio per l’opportunità che mi ha dato. Come ho già detto in passato, bisogna essere in due perché i miracoli avvengano in un relitto. “Il sogno era sempre stato davanti a me, in fuga. Raggiungerlo, trascorrevi un momento all’unisono, quello era il miracolo”.
E così, prima di girarle le spalle, mi sono tolto l’erogatore di bocca e ho appoggiato le labbra sulla prima pala in cui mi ero imbattuto. Un lungo arrivederci, poi ho ripreso la via dell’opera viva.
La chiglia risalendola mi è sembrata verticale. La corrente iniziava a farsi sentire nuovamente e così, per non divenire sua facile preda, ho risalito la china quasi in verticale. Ho scalato il mio pezzo di K2 con le mani. Non ho nuotato lungo lo scafo, l’ho proprio risalito bracciata dopo bracciata, dopotutto il mio cognome un senso di montagna lo porta e quindi mi è sembrato più che giusto onorare la “Nave degli italiani” in questo modo.
Mi sono riparato sotto murata. Sono tornato verso il pedagno a favore di corrente. Ho guardato il manometro e dato che i consumi erano assai bassi e contenuti mi sono concesso un ultimo giro di valzer sul relitto. Ho tenuto la linea degli oblò sulla murata di sinistra come riferimento per arrivare al poggia lancia dell’ultima scialuppa della murata. Poi sono sceso di quota e sono riuscito a guardare dentro l’Andrea Doria. Ho intravisto gli interni, ho allungato le braccia e ho provato a filmare quel che potevo tenendomi con una mano sempre ben saldo al relitto. Qui per la prima volta mi sono mosso senza sagola guida. La tentazione era quella di continuare e guardare sempre più in là, poi però mi sono fermato e ho interrotto bruscamente la mia voglia di continuare ad esplorare il relitto.
“Se la corrente tornasse all’improvviso?”.
Dopotutto questa stanca è stata una sorta di miracolo improvviso. Quando mi immergevo in Irlanda alcuni anni fa, a Malin Head, a bordo sempre dicevamo che alla prima avvisaglia di corrente crescente quello era il segnale di chiudere l’immersione. E così ho fatto, anche questa volta, dall’altra parte dello stesso Oceano.
Prima di lasciare il relitto, l’ho guardato. Ho poggiato la mia mano destra sulla sua murata e ho detto alla bella Nave che giace sul fondo dell’Atlantico: “Allora torno a trovarti”.
In decompressione mi sono commosso.
Il sogno era diventato realtà.
Andrea Murdock Alpini mentre carica le attrezzature subacquee a bordo della DV Tenacious,courtesy PHY Diving Equipment
Fondazione Ansaldo
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